Esteri

Il Valzer dell’Illusione: quando gli imperi ballano prima di cadere


di Carlo Di Stanislao


La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa.”
— Karl Marx

In principio era Versailles, poi venne Schönbrunn, infine c. Ora, per completezza di farsa, è il turno della White House Ballroom: 8.400 metri quadrati di intonaco, nostalgia e hamburger. E se vi sembra poco imperiale, è perché non avete mai visto il declino sotto i riflettori LED, condito da stucchi in polistirolo e slogan motivazionali.

Donald Trump, eterno maestro di cerimonie del proprio ego, ha deciso che alla Casa Bianca mancava una sala da ballo. Non una metafora, proprio una stanza vera, con lampadari grandi quanto il debito pubblico, buffet da fast food serviti su porcellane di Limoges, e una capienza da matrimonio texano. Perché se l’Impero si sfalda, meglio farlo col sottofondo giusto. Magari “Eye of the Tiger”, giusto per non dimenticare che la civiltà occidentale è un montaggio di Rocky III.

Chi aveva nostalgia del fasto imperiale si prepari alla delusione. Non troverà crinoline e valzer di Strauss, ma paillettes, karaoke e patriottismo spray. L’effetto è quello di una replica low-cost del Congresso di Vienna, con Rudy Giuliani al posto di Metternich, e un comitato d’onore composto da influencer, avvocati radiati e chef specializzati in ribs. Ma occhio a ridere: è qui che comincia la tragedia.

È il trionfo della politica-spettacolo, dove la diplomazia si fa tra un foxtrot e un selfie, e la geopolitica si misura a colpi di follower. Come a dire: se l’Impero non regge, che almeno crolli in prima serata.

I più ingenui diranno che è solo una sala. I più smaliziati capiranno che è un monumento al post-imperialismo, la scenografia definitiva per un potere che non governa ma si rappresenta. Un teatro dove la democrazia è coreografia e lo Stato si mette in posa, sperando che nessuno noti l’incendio dietro le quinte.

Vienna danzava nel 1913, Washington danza nel 2025. Là, valzer in ¾ e uniformi scintillanti. Qui, giacche oversize e parrucchini testardi. Là, lo sfarzo che copriva le crepe dell’Impero Austro-Ungarico. Qui, il kitsch come linguaggio ufficiale della Repubblica.

Eppure, il gesto è perfetto nella sua coerenza. Trump non è solo un presidente-ex-presidente: è un architetto del surreale, un decoratore di destini. Come Francesco Giuseppe che faceva costruire teatri mentre i Balcani fumavano, anche lui preferisce le balaustre al bilancio federale, e i lampadari ai libri contabili. La nuova sala da ballo è la Truman Balcony dell’inconsapevolezza, l’aggiunta che nessuno chiedeva ma tutti meritano, in un’epoca dove la performance ha soppiantato la politica.

Non si governa più, si inscena. Non si negozia, si va in scena. Si balla sul Titanic con l’orchestra che suona, sapendo perfettamente che l’acqua è già alla caviglia.

L’Impero Austro-Ungarico si consumava tra ricevimenti sempre più sontuosi e decreti sempre più vuoti. Oggi, gli Stati Uniti fanno la stessa cosa, con dazi invece di cannoni, tensioni interne invece di trincee, e TikTok al posto delle gazzette. Il potere barcolla, ma tiene il ritmo.

La White House State Ballroom non sarà solo un luogo di ricevimento: sarà una pista da ballo per un ordine che traballa, un altare pop al culto della facciata. Forse non è un caso che tutto avvenga nell’East Wing, nato nel 1902: l’anno in cui anche l’Austria cominciava a lucidare i saloni per l’ultima volta, prima che la Storia bussasse coi suoi stivali infangati.

E oggi? Oggi la Storia non bussa.
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