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I curdi la chiamano Kobane, gli arabi Ayn al Arab. E’ la strategica città sul confine tra Siria e Turchia, da giorni al centro di furiosi combattimenti.
Da una parte i difensori peshmerga, ripiegati all’interno del perimetro cittadino dopo essere fuggiti dai villaggi della Rojava, il nome di questa regione settentrionale dall’immensa importanza strategica.
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I curdi la chiamano Kobane, gli arabi Ayn al Arab. E’ la strategica città sul confine tra Siria e Turchia, da giorni al centro di furiosi combattimenti.
Da una parte i difensori peshmerga, ripiegati all’interno del perimetro cittadino dopo essere fuggiti dai villaggi della Rojava, il nome di questa regione settentrionale dall’immensa importanza strategica. Dall’altra i combattenti jihadisti del califfato, che stanno allargando la propria area di influenza, il cui epicentro è la città siriana di Raqqa.
Un’avanzata inesorabile che i raid aerei della coalizione non sono riusciti a fermare, anche a causa dell’assenza di coordinamento tra i comandi internazionali e i peshmerga siriani. Proprio l’assenza di truppe di terra si sta rivelando un insormontabile handicap per le velleità dell’alleanza di distruggere i miliziani dell’Is. Questi ultimi infatti stanno adottando tattiche di combattimento che prevedono il ricorso a nascondigli situati in zone densamente abitate da civili, rendendo così impossibile la loro individuazione dall’alto.
Ultimamente tra i comandi della coalizione è tornata prepotentemente all’ordine del giorno la questione di trovare degli alleati che da terra possano occupare i territori colpiti dall’offensiva aerea. Un dato che inevitabilmente porta a rivalutare il ruolo del popolo curdo, l’ultimo baluardo che possa fermare gli uomini del califfato. Ma e’ proprio sullo sdoganamento definitivo delle organizzazioni combattenti curde che si sta consumando l’ennesima crisi di questa martoriata regione.
Il PKK di Abdullah Ocalan, il partito dei lavoratori con un agguerrito braccio militare, è tuttora inserito nella lista delle formazioni terroristiche del Dipartimento di stato americano. Un pegno pagato al governo di Ankara, da sempre profondamente anti curdo, ma che dopo la decisione di attaccare le roccaforti dell’Is, è divenuto una zavorra ideologica di cui disfarsi.
Proprio il ruolo della Turchia è in queste ore al centro delle speculazioni delle cancellerie internazionali. Nonostante Erdogan abbia deciso di prendere parte alle operazioni della coalizione internazionale, da più parti si sottolinea l’ambiguità dell’effettivo impegno del governo di Ankara. L’autorevole quotidiano britannico “Times” ha infatti pubblicato un articolo nel quale si parla del rilascio dei diplomatici turchi rapiti ad agosto a Mosul. Ebbene, secondo le fonti del quotidiano, sembra che Ankara, per la liberazione del proprio personale, abbia scarcerato oltre cento miliziani del califfato detenuti nelle proprie prigioni. Uno scambio che, nonostante le smentite, ha profondamente irritato Washington, al punto da minacciare Ankara di ritorsioni a livello NATO. Quel che è certo e che senza una piattaforma di intesa tra curdi e turchi, ogni sforzo per liberare il nord della Siria dalla presenza dei jihadisti è destinato a fallire.
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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::139::/cck::