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La guerra contro il terrorismo islamico non si combatte solo nelle sabbie dei deserti di Siria e Iraq. Lo sforzo maggiore delle intelligence occidentali è rivolto a prevenire un attacco “in casa”.
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La guerra contro il terrorismo islamico non si combatte solo nelle sabbie dei deserti di Siria e Iraq. Lo sforzo maggiore delle intelligence occidentali è rivolto a prevenire un attacco “in casa”.
Secondo gli esperti, suffragati dai recenti fatti di sangue di Ottawa e New York, il vero pericolo in questa fase della lotta all’Is, è il cosiddetto “lupo solitario”. Un cittadino formalmente integrato nel sistema occidentale che dopo una conversione spirituale, spesso figlia della propaganda jihadista sul web, decide di effettuare un attacco suicida contro uno dei simboli del mondo moderno.
Nel caso dell’attentato nella capitale canadese il “convertito” Michael Zehaf-Bibeau, ha prima attaccato il monumento ai caduti per la patria, uccidendo il militare di origine italiana Nathan Cirillo, e poi ha finito il suo compito di morte sparando all’impazzata all’interno del parlamento per poi essere abbattuto.
Per quanto riguarda invece l’aggressione a colpi d’ascia nei confronti di un gruppo di poliziotti che stava ispezionando la metropolitana di New York, il protagonista è Zale Thompson, appartenente all’ambiente dell’estremismo islamico, come affermato dalla stessa polizia della grande mela. Terroristi “fatti in casa”, che a causa di frustrazioni personali o vista l’impossibilità di un percorso d’integrazione adeguato, hanno deciso di abbracciare la causa dell’islam radicale.
Due casi emblematici, che hanno spinto i servizi segreti occidentali ad incrementare lo sforzo investigativo nei confronti dei propri cittadini in odore di eversione fondamentalista. Un vero e proprio incubo per le intelligence della NATO, vista soprattutto l’estrema difficoltà di infiltrare propri agenti in questa galassia terroristica.
I paesi maggiormente esposti al rischio di aggressioni interne sono gli stessi impegnati con i propri uomini nelle guerre in corso in medioriente, cioè Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, ma anche Germania e Italia stanno vedendo proliferare all’interno dei propri confini adepti al network del terrore jihadista.
Secondo i dati recentemente forniti dal Copasir, sarebbero centinaia i simpatizzanti del califfato islamico operanti in qualche modo sul nostro territorio. Spesso si tratta di giovani in attesa di partire per i teatri di guerra di Siria e Iraq, ma vista la presenza in Italia di obiettivi altamente simbolici, in primis il Vaticano, l’allerta degli investigatori rimane altissima.
Un discorso a parte lo meritano invece quei paesi dell’area mediterranea che stanno ancora vivendo i postumi delle rivoluzioni arabe d’inizio decennio. Secondo le stime più accreditate, dopo iracheni e siriani, la maggior parte dei combattenti dello Stato islamico, arriverebbero proprio da Egitto e Tunisia. Un problema enorme per nazioni estremamente fragili, che stanno attraversando un percorso di transizione ancora tutto da definire, in bilico tra potenziali democrazie e rigurgiti totalitari.
Altro scenario critico è la Libia, probabilmente il più grande serbatoio di combattenti islamici di tutta l’area mediterranea e del levante. Dopo la caduta di Gheddafi nel 2011, il paese è nelle mani di bande che si contendono il controllo di singoli spezzoni di territorio. Spesso queste formazioni possono contare sugli armamenti prelevati dai fornitissimi depositi di epoca gheddafiana, il che le rende particolarmente pericolose e adatte alla guerra jihadista globale.
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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::193::/cck::