Economia

Cina in crisi ambientale

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Cina. Fiume Lijiang. Autore: Charlie fongAnni fa, alcuni importanti politici italiani pontificavano sull’importanza di aprire alla Cina, di imitarne il sistema industriale che aveva portato, in appena trent’anni, una nazione in via di sviluppo, ad essere con gli Stati Uniti al vertice dei paesi più industrializzati e, politicamente, tra le più forti potenze sullo scacchiere internazionale.

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Anni fa, alcuni importanti politici italiani pontificavano sull’importanza di aprire alla Cina, di imitarne il sistema industriale che aveva portato, in appena trent’anni, una nazione in via di sviluppo, ad essere con gli Stati Uniti al vertice dei paesi più industrializzati e, politicamente, tra le più forti potenze sullo scacchiere internazionale.
Un successo che in pochi anni ha permesso a questa immensa nazione di dettare legge sui mercati internazionali in molti settori divenendo la locomotiva dello sviluppo internazionale e dominando la scena delle borse internazionali.
Peccato che c’è anche un rovescio di questa scintillante medaglia.
Leggendo alcuni studi sul rapporto economia e sostenibilità ambientale apprendiamo che se le cose non cambieranno, ci sarà tra pochi anni un amaro risveglio per l’economia del gigante giallo.
Pechino dovrà scegliere se continuare con la politica di sviluppo economico senza freni o cominciare a pensare a risolvere i danni in un ambiente talmente dissestato da far sembrare la nostra scassata Italia, un esempio di protezione naturalistica.
In Cina è ormai evidente la disparità tra un’economia di mercato selvaggia e i rischi già visibili per l’ambiente, talmente gravi che ne possono condizionare il futuro dell’economia e, per riflesso, anche quello dell’intero pianeta.
Le questioni ecologiche che affliggono la Cina sono in molti casi addirittura alla fase del non ritorno, come l’esaurimento di falde acquifere, ormai non riciclabili, la crescita della popolazione, il deterioramento ambientale, l’utilizzo sfrenato di energia, l’inquinamento dell’aria: ormai vedere città come Pechino o Shangai coperte da una coltre di smog non fa più notizia, problemi gravi che minano nel prossimo futuro la stessa stabilità della nazione.
Tra i problemi che i cinesi debbono affrontare per la loro sopravvivenza è certamente quello dell’acqua che, per un paese così popoloso, assume un aspetto di estrema gravità.
Solo negli ultimi tre decenni la Cina ha prosciugato molte delle sue sorgenti d’acqua, per soddisfare le richieste dell’industria riducendo in un deserto un quarto della terra agricola. Come se ciò non bastasse, 700 milioni di persone, poco più della metà dell’intera popolazione, non ha ancora accesso diretto all’acqua.
Una carenza idrica vissuta specialmente nella terre settentrionali ed occidentali dove ha raggiunto un livello critico tale da impedire, un vero progresso economico.
Purtroppo, davanti a questa tragedia idrica annunciata, per non parlare del problema energetico, l’uso del carbone, della deforestazione, della cementificazione senza regole, i governanti cinesi sembrano non arretrare nelle loro scelte di crescita industriale, anche se da ricerche molto documentate si dimostra che proprio queste scelte costeranno alla collettività quasi la metà del Pil per rimettere le cose a posto come erano prima.
A questo punto sorge una domanda che rivolgiamo anche a quei politici italiani che hanno guardato alla Cina come un esempio, se valeva la pena di fare tutto questo sforzo industriale per rovinare l’ambiente e spendere fra qualche anno una fortuna per tentare di riportalo come era prima del boom economico?
Non credo, per esperienza, che ci diano una risposta.

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::autore_::di Matteo Ricciotti::/autore_:: ::cck::237::/cck::

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