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Le questioni poste dalla vicenda sui “vigili assenteisti” stentano a trovare una soluzione accettabile e sufficientemente condivisibile.
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Le questioni poste dalla vicenda sui “vigili assenteisti” stentano a trovare una soluzione accettabile e sufficientemente condivisibile. Con l’aggravante che in qualche giorno ne cesserà l’eco sulla stampa, (come si sa gli italiani hanno fama di possedere memoria corta) fino al prossimo scandalo, perché di scandalo si tratta!
Per ora, siamo nella fase delle dichiarazioni e controdichiarazioni, interviste ed i diversi interlocutori, sindacati compresi, prendono le rispettive posizioni.
Da questa vicenda noi vogliamo trarre spunto per offrire il nostro punto di vista, su questioni più generali quali il metodo con il quale si affrontano temi importanti come le riforme e cominciamo, sinteticamente, dal chi sono i vigili: un corpo di polizia e, per la precisione, uno dei 6 corpi di polizia esistenti in Italia, Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Polizia penitenziaria, Corpo Forestale dello Stato, Polizie municipali. Esistono, comunque, anche altre istituzioni con compiti di polizia, come ad esempio la Guardia Costiera delle Capitanerie di Porto.
La prima domanda che ci poniamo è: tutti questi corpi di polizia non sono un po’ troppi, soprattutto per le onerose duplicazioni e l’insufficiente coordinamento tra di esse?
Si tratta di una domanda lecita se si vuole ricordare che fin dagli anni ’80 del secolo scorso tutte le iniziative di riforma su tale argomento, a più riprese tentate, sono cadute nel vuoto. Tutte avevano ed hanno un denominatore comune: ogni corpo di polizia fa riferimento ad un organo politico. I carabinieri al ministro della difesa, la polizia di stato al ministro dell’interno, la guardia di finanza al ministro dell’economia, la polizia penitenziaria al ministro della giustizia, il corpo forestale dello stato al ministro dell’agricoltura e le polizie municipali ai sindaci degli 8000 comuni italiani. Tutto ciò poteva avere un senso nell’immediato dopoguerra con governi di coalizione e con scarsa fiducia democratica in alcune compagini politiche, ma dopo i tentativi di colpo di stato tutti miseramente falliti, non esiste più da oltre 50 anni ragione plausibile al mantenimento di tali e tanti corpi separati.
Perché, dunque, tra le cose da rottamare non si include l’attuale anacronistica, onerosa, separazione delle polizie, per riorganizzarle con una vera riforma?
Nello specifico del caso dei “vigili assenteisti” intervengono poi le polemiche sull’applicabilità delle norme previste nel Jobs Act anche ai pubblici dipendenti. Ridondano le frasi fatte sui fannulloni, gli assenteisti, le “proteste organizzate” come forme di sciopero e chi più ne ha ne metta, e da più parti si invocano nuove norme e nuove leggi. Ad esempio, nell’intervista di Valentina Conte (Repubblica 2 gennaio 2015), Pietro Ichino sostiene che le regole per impedire abusi evidenti e gravissimi già ci sarebbero e che il problema sono i dirigenti pubblici che non le applicano. Se la diagnosi è convincente, molto meno appare la ricetta dell’eminente studioso e parlamentare: “Non è tanto un problema di contenuto delle regole, quanto di incentivazione e responsabilizzazione corretta dei dirigenti perché esercitino le proprie prerogative.” Non sembra convincente, infatti, perché sarebbe come dire: ti pago perché ti ho assunto, ma per fare il tuo dovere adempiendo ai compiti che ti ho dato, ti devo un incentivo, naturalmente economico… Insomma non sei responsabile se non adempi al tuo compito.
E per realizzare quella ricetta, si pretende di aggiungere qualche altra norma a quelle già esistenti.
Ed anche questo non sembra convincente e per questo ci richiamiamo ad un’altra delle vere riforme che vorremmo fosse realizzata.
Nell’articolo di Guido Sforza per il Fatto Quotidiano del 28 agosto 2014, dal titolo “Internet e istituzioni: quante sono le leggi in Italia? Meglio chiederlo a Google che a Normattiva”, si afferma che in Italia, il corpus normativo statale dei provvedimenti numerati (leggi, decreti legge, decreti legislativi, altri atti numerati), dalla nascita dello Stato unitario poteva essere valutato in “circa 75.000″ unità. E’ come dire che nessuno conosce il numero di atti normativi prodotto in Italia, paese entro i primi dieci più civilizzati (sic!) al mondo.
Il premier Renzi, a chi lamentava i ritardi nell’approvazione delle riforme con l’emanazione delle norme proposte, rispondeva con i numeri delle norme da attuare ricevuto in eredità dal precedente governo Letta e con i tempi necessari al completamento della produzione normativa dopo il suo avvio. Ed aveva ragione. Ma, probabilmente, non ha ragione quando non trae le conseguenze di un modo di legiferare che sembra rispondere in primo luogo alla quantità della produzione normativa del nostro sistema legislativo che non alla qualità. Insomma, si tratta non solo di una dimenticanza nell’elenco delle cose da rottamare, ma addirittura, a nostro avviso, di una omissione di priorità. Le ragioni? Forse, azzardiamo, siamo di fronte ad un sforzo immane per la cui realizzazione l’orizzonte dei quattro anni di una sola legislatura è infinitamente piccolo. Ma, è opinione di chi scrive, si tratterebbe della madre di tutte le riforme, adottando il nuovo principio, secondo il quale ciò che una legge deve indicare non è né ciò che è permesso e tanto meno le relative modalità di attuazione, bensì ciò che è vietato, rendendo possibile tutto il resto.
http://www.pietroichino.it/?p=34005
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/28/riforme-il-paese-soffoca-in-un-labirinto-
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::autore_::di Giorgio Castore::/autore_:: ::cck::351::/cck::