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E’ di tutta evidenza che l’arrivo nelle stanze del governo e del potere politico ed economico delle nuove generazioni avrebbe provocato tensioni e criticità di varia natura.
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E’ di tutta evidenza che l’arrivo nelle stanze del governo e del potere politico ed economico delle nuove generazioni avrebbe provocato tensioni e criticità di varia natura. Dopo decenni di politica ingessata, di tragici momenti come quello del terrorismo e poi della stagione della solidarietà nazionale, per la prima volta nel nostro paese assistiamo al primo reale, profondo e strutturale cambio generazionale non soltanto nella leadership politica, ma anche in quella economica e sociale. Un paese mutato in modo anche confuso, ma certamente in profondità, aveva bisogno di una nuova rappresentanza dei propri interessi. E’ quel che sta accadendo, soprattutto dopo le elezioni che nel 2013 hanno rivoluzionato il parlamento e portato al governo, attraverso alcuni passaggi non del tutto indolori, il premier Matteo Renzi.
Tutto positivo? Difficile dirlo, ma una cosa è certa: il cammino è appena iniziato e malgrado decisi passi avanti, il più resta ancora da fare e quel che manca (ma non solo) va a impattare con una sorta di moloch che nessuno può sottovalutare perché profondamente innervato nel tessuto sociale tanto da farlo sembrare quasi normale. Parliamo di quel sistema che viene definito “consociativismo”.
Chi scrive, anche per ragioni anagrafiche, conserva vivo il ricordo di quella stagione. Il progressivo indebolirsi del metodo di governo democristiano e del significato politico del centrosinistra inteso come allargamento della base politica, la tragedia del terrorismo e la solidarietà nazionale susseguente, hanno plasmato, costruito e reso operante un sistema di pesi e contrappesi che in assenza di una possibilità di alternativa almeno sino al crollo del muro di Berlino e dell’Urss, ha consentito al paese di affrontare momenti difficili e di tentare di avviare un cambiamento sostanziale per farlo divenire democraticamente moderno e completo.
Un cammino pacifico, privo di furori ideologici ma anche di sostanziale spinta progressiva che ha posto in essere quello che venne definito un “sistema” vero e proprio di spartizione del potere locale e nazionale.
Il campanello di allarme che qualcosa stava cambiando fu l’inchiesta mani pulite a Milano e di lì prese le mosse una sorta di “rivoluzione” politica di stampo liberale o almeno questo era l’intento iniziale, che sfociò nel governo di Berlusconi, quindi nel ritorno al governo del centrosinistra post Muro prima prodiano poi d’alemiano, quindi ancora al ritorno del cavaliere e al lungo suo periodo di governo.
In tutto questo frangente di vita nazionale in molti e da molte parti si sono scagliati contro il consociativismo, contro le politiche ad esso conseguenti, auspicandone la fine per arrivare ad un paese finalmente moderno, occidentale e avanzato.
Così si sono susseguiti tentativi di avviare riforme che toccassero alla radice l’immobilismo politico nazionale, riforme sempre avviate e mai condotte in porto ora per uno ora per l’altro dei contendenti. Con ciascuno convinto di interpretare realmente quello che il paese voleva, si aspettava, desiderava.
Ebbene in questo susseguirsi di eventi risulta evidente una sola cosa: il consociativismo è sopravvissuto a se stesso, ha corrotto prima il liberalismo riformista imbrigliando sostanzialmente, mentre lo combatteva senza quartiere, il fenomeno berlusconiano, e poi cercando di relativizzare, rallentare e bloccare ogni altro tentativo di colore anche diverso, di riavviare il paese in economia e sul terreno cruciale delle riforme. Tutto per evitare che cambiasse realmente il “sistema”.
Ai nostri giorni, il moloch benché scalfito e ammaccato è sempre lì e ha trovato un nuovo terreno di scontro nell’evoluzione del sistema politico e rappresentativo prodotto dalla devastante crisi economica e dal collasso del governo di centrodestra – non il solo e unico responsabile di questa situazione – e dal susseguirsi di governi tecnici e/o del presidente, mentre si cercava di dare corpo ad una vera novità in tema di riforme, rappresentanza democratica e reale volontà degli elettori. Tentativo ancora in corso.
La resistenza che sin dall’inizio del governo Renzi – in questo ontologicamente diverso da quello di Monti e dal successivo di Enrico Letta comunque all’interno dello schema sistemico – viene attuata nei confronti di ogni progetto di incisiva riforma sia essa del lavoro, della giustizia, dell’economia, il martellante richiamo ai valori democratici, del confronto e della dialettica come se ci si trovasse dinanzi ad un’involuzione antidemocratica, mostrano senza possibilità di errore che il “consociativismo” non vuole abbandonare la scena, la vuole condizionare e, sostanzialmente, vuole riuscire a normalizzare l’anomalia renziana. Il paradosso è che un governo di centrosinistra, nato e votato come tale, sembra essere il peggior nemico agli occhi dei consociativi. La vecchia guardia ex comunista messa ai margini, i settori del sindacato lasciati in disparte mentre prima decidevano anche come fare le leggi, le parole timide ma chiare che cominciano a girare (persino da parte del prudentissimo presidente Mattarella) sulla opportunità democratica di migliorare la giustizia rivisitando il ruolo della magistratura in senso più garantista, la volontà di modificare strutturalmente il sistema parlamentare, sbloccare l’economia e liberare le energie delle quali il paese è ancora ricco, sono tutti segnali di pericolo per chi vorrebbe ritornare al bel tempo antico. Ecco allora che minoranza pd e Sel, le due Cgil di Camusso e Landini, parlano sommessamente ma da tempo di creare una nuova forza politica di sinistra per correggere la spinta verso il centro del premier Renzi.
Tutto questo senza dare risposte concrete e coerenti alle esigenze di una nazione dove i giovani sono sempre più presenti, ma ancora senza potere effettivo e in molti casi senza lavoro. Ma a costoro ciò interessa solo a parole, come ogni discorso sulla rappresentanza. Dove erano infatti quando il lavoro diveniva precario e occorrevano risposte politiche e sindacali all’altezza dei mutamenti mondiali? Chiusi nelle loro comode ridotte, teorizzavano il futuro, senza conoscerlo. Per decenni la precarizzazione del lavoro, la sua atipicità, non ha trovato sponda o rappresentanza nel sindacato e nella politica. Ora che – è una metafora – i precari vanno in parlamento e al governo, e spingono per cambiamenti senza il loro consenso, apriti cielo. Lesa maestà, pericoli per la democrazia, rischi di tenuta sociale e via dicendo. Solo che tra i responsabili di questa crisi vi sono anche loro, i consociativi, che non si sono accorti che l’ordigno stava per esplodere nelle loro mani. Dunque, che passino per un giro, non è poi un gran danno, anche se non vogliono accettarlo naturalmente incuranti del bene del paese!
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::autore_::di Roberto Mostarda::/autore_:: ::cck::447::/cck::