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Rischi di allargamento dei conflitti: gruppi sparpagliati di insurgents in cerca di un ruolo. I Paesi interessati non gradiscono.
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Rischi di allargamento dei conflitti: gruppi sparpagliati di insurgents in cerca di un ruolo. I Paesi interessati non gradiscono.
E’ pur vero che per alimentare la convinzione che il terrorismo sta invadendo il mondo non basta un ennesimo attentato, come quello di sabato 7 marzo, rivendicato da Al-Mourabitoune dell’algerino Mokhtar Belmokhtar, con 5 morti al ristorante La Terrasse, a Bamako, capitale del Mali, Stato confinante fra l’altro a Nord con l’Algeria ed a sud col Niger.
Come non basta la comunicazione ufficiale dell’adesione all’Is, diffusa il 7 marzo scorso, della setta Boko Haram, che continua a terrorizzare il Nordest nigeriano, per immaginare che presto saremo invasi da orde di guerriglieri, inneggianti al califfato.
Così come pure non bastano le dichiarazioni di Leggeri, di nome e di fatto, nuovo responsabile di Frontex «Secondo nostre fonti – ha dichiarato – dalla Libia sono pronte a partire da 500 mila a un milione di persone», perché si alimenti la sensazione di un imminente sfondamento della naturale barriera fisica del Mediterraneo verso l’Europa attraverso l’Italia.
Certo non basta tutto ciò, ma sarebbe autolesionista non considerare anche questi fatti.
La crisi libica è certamente un fatto, così il terrorismo crescente è un altro fatto. Ma anche le recenti iniziative per contrastare il terrorismo sono un fatto, così come quelle per trovare soluzioni alla crisi libica.
Cerchiamo di orientarci insieme su quest’ultima vicenda e sulle politiche perseguite dagli attori principali, dalle quali Bernardino Leon, inviato del segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon per la crisi libica, non può, a nostro avviso, prescindere.
Senza voler escludere i paesi ex coloniali, concentriamoci brevemente su quelli più direttamente interessati, con diversi gradi di intensità, dalla crisi libica cioè i nordafricani che si affacciano sul Mediterraneo.
L’Algeria, per bocca del suo ministro degli esteri, si propone come “paese esportatore di sicurezza e di stabilità”, e, secondo Laurence Aïda Ammour (*), ha l’obiettivo di evitare conseguenze strategiche irreversibili, perseguendo in Libia una riconciliazione fra le milizie rivali, per avviare una transizione politica, cominciando, con l’aiuto della Tunisia, a bloccare il traffico d’armi dalla Libia alla regione del Sahara-Sahel. Non bisogna dimenticare che i confini meridionali comuni di Tunisia ed Algeria sono stati interessati a più riprese da attacchi terroristici, come pure è noto che i rifornimenti di armi alla setta Boko Haram che opera prevalentemente ai confini tra Nigeria e Niger e tra Nigeria e Chad, sono alimentati con molta probabilità da flussi provenienti dalla Libia.
Dal canto suo il primo ministro e capo di stato tunisino Béji Caïd Essebsi, appena eletto, nella sua prima visita di stato in Algeria ha dichiarato di essere contrario agli interventi militari esterni e favorevole a consultazioni e concertazioni tra i paesi della regione: Algeria, Tunisia, Egitto con il coinvolgimento del Mali, del Niger e, naturalmente, della stessa Libia, concordando con la Tunisia che la Libia rimane l’elemento chiave della stabilità della regione: un chiaro messaggio all’Egitto che deve prendere atto anche del ruolo svolto da Rached Ghannouchi, leader del partito islamista tunisino Ennahda nei suoi molteplici viaggi in Algeria.
Ghannouchi, apprezzando la forte posizione algerina di non includere nella lista dei gruppi terroristi i Fratelli Mussulmani per il loro contributo a preservare il paese dal terrorismo, entrerebbe, così, a pieno titolo nella cosiddetta realpolitik algerina in una dimensione internazionale, anche perché capace di favorire il contatto con Abdelhakim Belhadj, ex capo del Consiglio militare di Tripoli, ritenuto influente nello scacchiere libico.
Una realpolitik che, però, si è scontrata con gli interventi militari dell’Egitto e degli Emirati in Libia, senza, tuttavia spezzare il necessario dialogo tra i due paesi: il Ministro per gli affari esteri algerino, infatti, non li ha ritenuti tali da cambiare fondamentalmente l’impegno dei paesi della regione per un dialogo inclusivo in Libia. Ne è risultato, comunque, un rafforzamento dell’asse Algeria Tunisia.
Tenere conto anche di queste variabili appare importante nello sforzo che Leon sta cercando di condurre per giungere ad individuare una sorta di governo di unità nazionale della Libia, necessario per avere almeno un’interlocuzione sufficientemente rappresentativa, indispensabile per non fare parlare soltanto le armi.
(*) Laurence Aïda Ammour, sociologa algerina, analista di sicurezza internazionale e difesa per GéopoliSudconsultance. http://www.geopolisudconsult.com/
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::autore_::di Giorgio Castore::/autore_:: ::cck::474::/cck::