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Secondo una ricerca condotta da McKinsey, l’aumento del debito di famiglie, governi, imprese e multinazionali è molto superiore rispetto al ritmo della crescita globale.
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Secondo una ricerca condotta da McKinsey, l’aumento del debito di famiglie, governi, imprese e multinazionali è molto superiore rispetto al ritmo della crescita globale.
Il debito mondiale è aumentato, dal 2007 ad oggi, di 57.000 miliardi di dollari, per raggiungere la cifra record di 200.000 miliardi.
Questo importo rappresenta il 286% rispetto al Pil mondiale e mostra la tendenza negli ultimi trent’anni di crescita a dismisura dell’economia finanziaria virtuale nei confronti dell’economia reale, quella che una volta era considerata produzione e scambio di beni e servizi.
Nel mondo ci sono almeno nove paesi, Giappone in primis, che hanno un rapporto debito/Pil del 300%. Almeno il 39% delle principali economie mondiali ha sul groppone un debito superiore al 100% del proprio Pil.
Dai lontani anni ’70, con l’abbandono delle riserve auree come legame di stabilità per l’emissione di carta moneta, la finanza ha preso sempre più il sopravvento attraverso deregulation, alchimie finanziarie e speculazioni che hanno cambiato il volto alle dinamiche economiche per come i libri classici recitavano.
I manuali di economia neoclassica di inizio ‘900 attribuivano al “capitale” poteri taumaturgici intesi come portatori sani di incremento di reddito e migliori condizioni di vita per tutti i popoli interessati da crescita e sviluppo.
All’epoca risale la stesura originale, poi modificata e affinata, dell’indice del Prodotto Interno Lordo come misura della ricchezza prodotta in un determinato paese.
L’utilizzo del Pil come numeratore per poter conseguire la ricchezza media di ogni abitante (Pil/numero abitanti) è sempre stato oggetto di critiche e solo negli ultimi anni si è notato che la concentrazione di ricchezza è aumentata proporzionalmente al debito finanziario che il mondo produceva.
Se il 99% della ricchezza è detenuto dall’1% della popolazione mondiale, significa che il debito, o l’accesso al credito, arricchisce tendenzialmente chi già detiene beni e rendite rispetto all’elemento del reddito da lavoro.
L’Italia, nonostante rappresenti poco meno dell’1% della popolazione mondiale, detiene il 5,7% della ricchezza complessiva.
Ogni cittadino italiano ha una ricchezza media di circa 143.000 euro, tra i valori più elevati di tutti i paesi OCSE (le famiglie italiane sono più ricche in media di quelle francesi, inglesi e tedesche).
Ma la ricchezza è molto più concentrata del reddito disponibile: il 10% delle famiglie (circa due milioni) detiene il 46,6% della ricchezza complessiva e il 27% del reddito totale.
Il 50% delle famiglie più povere detiene meno del 10% della ricchezza totale.
Questa disuguaglianza ha avuto un incremento nei primi anni novanta, per stabilizzarsi negli anni di crisi e per riprendere il suo corso nell’ultimo triennio.
Il nostro paese presenta una sperequazione molto più accentuata rispetto agli altri paesi europei e la ricchezza deriva maggiormente da eredità, rendite immobiliari e finanziarie, che creano sempre più distanza rispetto al reddito da lavoro.
La difficoltà di trasmissione del credito e di accesso al finanziamento delle piccole e medie imprese e dei privati mette l’accento sull’esito del Quantitative Easing appena partito.
Se la massa di liquidità indiretta in arrivo resterà appannaggio delle banche, sarà importante trovare un meccanismo che veicoli ai consumatori finali queste risorse.
La difficoltà che vive il mondo del lavoro e l’occupazione è la cartina al tornasole della trasformazione del nostro paese. Se il lavoro non permette più alle attuali condizioni la creazione e l’accumulo di risorse per crescere, servono dei meccanismi regolatori per spalmare il debito pubblico in modo più equo.
Ognuno di noi ha 30.000 euro di frazione di debito pubblico. Speriamo che anche in futuro potremo dire: finché c’è debito c’è speranza.
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::autore_::di Gianluca Di Russo::/autore_:: ::cck::466::/cck::