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Bisognava che la conta delle vittime (per difetto) toccasse quota 220mila, per spingere la diplomazia americana ad una svolta radicale riguardo la politica da mettere in campo in Siria.
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Bisognava che la conta delle vittime (per difetto) toccasse quota 220mila, per spingere la diplomazia americana ad una svolta radicale riguardo la politica da mettere in campo in Siria.
L’annuncio del segretario di stato John Kerry di trovare una soluzione politica al conflitto in corso, anche attraverso un dialogo diretto con il presidente siriano Assad, è indubbiamente un cambio di passo significativo. Il leader alauita infatti, solo tre anni fa, era stato sul punto di essere estromesso dal potere da un’offensiva militare a guida USA. Nel frattempo però la nascita del califfato nero, a cavallo della Siria orientale e dell’Iraq occidentale, ha spinto gli strateghi di Washington a valutare con più attenzione i rischi di una destabilizzazione del medio oriente. Perché abbattere il regime di Damasco avrebbe, in questo momento, il risultato di consegnare questa importantissima area strategica ai miliziani jihadisti con conseguenze facilmente immaginabili.
La svolta, fortemente caldeggiata dal presidente Obama, è figlia anche del dialogo intrapreso da tempo con l’Iran: dal dossier sul nucleare civile alla politica di sostegno al governo sciita di Baghdad. Non che la diplomazia americana sia del tutto convinta della buona fede degli ayatollah, ma in questa fase lo sdoganamento di Teheran è visto come il male minore per ridare una parvenza di pace alla regione.
Riallacciare il dialogo con Damasco porterebbe inoltre a raffreddare la tensione con il presidente Vladimir Putin, dopo gli attriti seguiti dalla “rivoluzione” di piazza Maidan in Ucraina. Gli screening sui combattenti jihadisti effettuati dai servizi d’intelligence americani, hanno dimostrato che buona parte dei combattenti del califfato nero, provengono dall’area del Caucaso, come ad esempio il responsabile militare Omar al Shishani.
Collaborare con Damasco e con il Cremlino, suo imprescindibile e potente sponsor, potrebbe obbligare i combattenti radicali a gestire un nuovo fronte assai oneroso per i mezzi a loro disposizione. Una politica di avvicinamento tra le due grandi potenze da condurre con estrema discrezione.
A Washington infatti, la potentissima lobby filo israeliana, sta esercitando enormi pressioni sul Congresso a maggioranza repubblicana affinché il regime di Teheran rimanga relegato nel cono d’ombra della politica internazionale. Ad intralciare i piani di Obama ci sono inoltre le petromonarchie del golfo, preoccupate forse più d’Israele rispetto ad un Iran dotato di tecnologia nucleare. L’avvento sulla scena geopolitica mediorientale dello stato islamico sta dunque stravolgendo gli equilibri sui quali si sono fondate le alleanze regionali negli ultimi trent’anni. Uno scenario “in fieri”, che avrà bisogno di tempo per sedimentarsi e lasciare sbocciare i propri frutti.
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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::487::/cck::