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E’ una parola che perseguita la narrazione della storia dell’uomo, quella che abbiamo scelto questa settimana. Un termine che evoca qualcosa di indicibile, di disumano, di oltre l’umano ma che tragicamente fa parte dell’umano o di un modo di concepirlo assolutamente insensato e soprattutto oltre ogni linea di civiltà.
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E’ una parola che perseguita la narrazione della storia dell’uomo, quella che abbiamo scelto questa settimana. Un termine che evoca qualcosa di indicibile, di disumano, di oltre l’umano ma che tragicamente fa parte dell’umano o di un modo di concepirlo assolutamente insensato e soprattutto oltre ogni linea di civiltà.
Il significato di genocidio è quello di sistematica distruzione di una popolazione, una stirpe, una razza o una comunità religiosa.
Il termine fu utilizzato per la prima volta dal giurista Raphael Lemkin per designare, in seguito allo sterminio degli Armeni consumato dall’Impero Ottomano nel 1915-16, una situazione nuova e scioccante per l’opinione pubblica; tuttavia, fu solo dopo lo sterminio posto in essere dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale e l’istituzione di un tribunale internazionale per punire tali condotte, che la parola iniziò a essere utilizzata nel linguaggio giuridico per indicare un crimine specifico, recepito sia nel diritto internazionale sia nel diritto interno di numerosi paesi. L’accordo siglato a Londra l’8 agosto 1945 tra Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e URSS, prevede, infatti, la categoria dei ‘crimini contro l’umanità’, che include lo stesso genocidio e rientra a sua volta nella più ampia categoria dei crimini internazionali.
Il 9 dicembre 1948 l’Assemblea generale dell’ONU ha poi adottato una convenzione che stabilisce la punizione di questo crimine commesso sia in tempo di guerra sia nei periodi di pace e qualifica come genocidio l’uccisione di membri di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso; le lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; la sottomissione del gruppo a condizioni di esistenza che ne comportino la distruzione fisica, totale o parziale; le misure tese a impedire nuove nascite in seno al gruppo, quali l’aborto obbligatorio, la sterilizzazione, gli impedimenti al matrimonio, et cetera; il trasferimento forzato di minori da un gruppo all’altro. Tale definizione è stata accolta nell’art. 6 dello Statuto della Corte penale internazionale firmato a Roma il 17 luglio 1998.
Contraltare e corollario di questa parole è quella di negazionismo, con cui viene indicata una corrente antistorica e antiscientifica del revisionismo la quale, “attraverso l’uso spregiudicato e ideologizzato di uno scetticismo storiografico portato all’estremo, non si limita a reinterpretare determinati fenomeni della storia contemporanea ma, specialmente con riferimento ad alcuni avvenimenti connessi al fascismo e al nazismo (come l’istituzione dei campi di sterminio nella Germania nazista), si spinge fino a negarne l’esistenza.
Di genocidio torniamo a parlare dopo le dichiarazioni di Papa Francesco sulla tragedia che colpì il popolo armeno e che hanno provocato la dura reazione del governo turco. Una pagina che avremmo volentieri voluto non vivere perché dimostra come nessun progresso sulla strada di un’analisi e una rilettura degli avvenimenti sia stata compiuta ad Ankara in quasi un secolo. Il governo e la presidenza del Paese non si occupano della vicenda storica ma accusano e criticano soltanto chi parla di quanto accadde nelle lontane terre caucasiche alla dissoluzione dell’impero ottomano. Un vezzo o meglio un vizio che accomuna tutti coloro che si affannano da decenni a tentare di negare, smontare, distruggere il ricordo di fatti che hanno nei documenti storici prove inoppugnabili.
Ecco dov’è il punto. Chi nega, travisa, revisiona sulla base di ideologie tanto nefaste quanto quelle che si vuole sostenere, non si occupa mai seriamente delle tracce storiche, dei documenti esistenti, delle prove, delle testimonianze raccolte nell’imminenza dei fatti. Tutto questo non ha alcun senso per costoro che intendono semplicemente inserire le loro tesi nelle più ampia teoria complottistica mondiale. E soprattutto non una parola vera di condanna arriva mai da queste fonti per la sostanza inconfutabile degli avvenimenti.
Quando si parla di “genocidio” degli armeni si parla di constatate uccisioni di un milione di persone, quando si ricorda l’Olocausto si riferisce di oltre sei milioni di ebrei morti nei lager, senza aggiungere le centinaia di migliaia di persone, forse altri milioni, appartenenti a minoranze, a gruppi etnici travolti dalla stessa furia distruttrice, alla eliminazione sistematica di oppositori, ex alleati e via dicendo. Quando si accusano gli ex leader serbi di Bosnia e di Belgrado per il tentativo di eliminare i musulmani nei Balcani, si parla di decine e decine di migliaia di persone sterminate senza alcuna pietà soltanto per la loro religione (basta ricordare l’orribile pagina di Srebrenica) o le stragi di Tuzla e via dicendo. Parliamo di fatti nel centro dell’Europa negli anni Novanta dello scorso secolo, accaduti sotto l’occhio del mondo. Ebbene anche in questo caso si cerca di minimizzare, sminuire, si parla di atti di guerra: come se sterminare ottomila persone inermi e accatastate in fosse comuni da vive, si possa definire azione di guerra. Come sempre si grida alla macchinazione nei confronti di chi porta prove, documenti, di chi ha scoperto le atrocità e incastrato i responsabili!
E’ difficile, purtroppo, non constatare con preoccupazione che le basi stesse di atti di genocidio non vengono percepite da persone, da governi, da paesi, nella giusta maniera: quella codificata dopo la Shoah e che dovrebbe valere per ogni atto passato o presente che assuma quei connotati. Soltanto sradicando questa radice malsana si potrà parlare finalmente di un passo avanti della civiltà umana. Altrimenti quel che resta sono soltanto parole!
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::autore_::di Roberto Mostarda::/autore_:: ::cck::534::/cck::