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Questioni locali e ….. problemi nazionali

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Produce un senso di forte spaesamento l’analisi quotidiana della vita pubblica e politica del nostro Paese.

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Produce un senso di forte spaesamento l’analisi quotidiana della vita pubblica e politica del nostro Paese.
Ancora una volta, all’approssimarsi di elezioni locali, regionali, e comunali, in una vasta area nazionale, si assiste ad un inasprimento parossistico del confronto tra le forze politiche o quel che ne resta in piedi, con un occhio ai problemi particolari e richiami a livello nazionale. Un intreccio di questioni tra loro diverse e distanti, ma impiegate per attaccare, criticare, l’avversario locale. Risultato, un’attenzione soltanto o spesso strumentale ai nodi che ogni collettività presenta, generiche promesse di risolvere tutto e attenzioni indebite e fuori luogo a questioni di ben altro spessore ma strumentali alla lotta politica di comune o regione: esempio paradigmatico, quello dell’immigrazione con il suo bagaglio di timori, ansie, preoccupazioni e complessità finanziarie e organizzative.
Ma si assiste anche a dure battaglie che contrappongono, tanto per dirne una, la necessaria manutenzione delle strade all’internazionalizzazione delle piccole imprese. Un assurdo, potrebbe sembrare, ma un esempio valido della inutile confusione che spesso si crea. Si dirà, siamo in una fase di forte trasformazione nazionale, di mutamento ontologico del quadro politico, di scomparsa od eclissi di idee e visioni di insieme per la collettività nazionale e, dunque, alla ricerca di un punto di equilibrio. Ma non è questa una buona ragione per scambiare lucciole per lanterne o per imbastire discorsi politici locali infarciti di inulti o dannosi rinvii a problemi lontani e non necessariamente di interesse locale.
Quel che spaventa è anche la distanza siderale tra quel che si dibatte a livello locale e i veri problemi che le collettività presentano e che nel loro insieme sono “i problemi nazionali”. Quando si assiste a battaglie “contro” qualsiasi cosa, anche a scelte che potrebbero favorire la crescita dell’occupazione in una determinata area, rinviando a non meglio precisate nuove visioni di crescita economica, produttiva e sociale, purché definite da soluzioni che siano “bio” “eco”, non ci si rende conto che lodevoli intenzioni possono spesso produrre danni più gravi e permanenti in vaste aree. Senza produrre alcun vantaggio pratico. La tragica impasse nella quale si trova l’Ilva di Taranto ad esempio, è una manifestazione evidente. Sacrosanta la difesa della salute, il perseguimento di reati compiuti contro l’ambiente e la compagine sociale, ma chi dà risposte serie ed hic et nunc alla richiesta di lavoro di quanti lo perderebbero se lo stabilimento siderurgico chiudesse definitivamente o rimanesse inerte per troppo tempo? La facile adesione al rispetto dei diritti, non può prescindere anche dal necessario rispetto di molti doveri, assai più difficili da contemperare.
La politica industriale del paese deve certamente seguire strade aderenti al nuovo approccio ambientale, favorevole anche sotto il profilo del risparmio energetico in un paese come il nostro dipendente dall’estero, ma deve essere una politica industriale nazionale, in costante dialogo-confronto con le realtà locali, ma mai da esse condizionata. Questo, invece, è quello al quale assistiamo (pensiamo all’approdo italiano del gasdotto Tap dall’Azerbaigian o alla diatriba anche violenta sulla Tav) pressoché ogni giorno in ogni angolo della nostra Italia. Il particolare sta soffocando il valore nazionale, la coesione sociale e produttiva.
Quel che spaventa ancor di più, si può riassumere nell’antico detto “passata la festa, gabbato lo santo”, vale a dire che dopo il voto, assestata o meno nuovamente la realtà locale, tutto rischia di tornare come prima con poco e nessun vantaggio per le collettività.
Intanto, il tessuto economico e produttivo della nazione rischia di non cogliere i segnali sempre più evidenti della ripresa internazionale e di essere zavorrato (tranne alcune lodevoli eccezioni) da un bagaglio di inefficienze e di ritardi che nessun “cambiamento” politico sembra voler veramente affrontare (viene in mente la notizia recente della condizione della società di esazione siciliana con più avvocati alle sue dipendenze dell’amministrazione della Casa Bianca, e una produttività in termini di lotta all’evasione assai vicina non allo zero, ma al sottozero). Di fronte a tali assurdità non serve lanciare allarmi, ma occorre intervenire “manu militari”, sbloccare i gangli avviluppati e tagliare di netto. Chi lo può fare? Dovrebbero farlo gli amministratori locali, oppure dovrebbe farlo lo stato. Inevitabile, è da quasi trent’anni che si va avanti così la denuncia di statalismo, di intervento a gamba tesa contro le autonomie locali. La verità è che queste articolazioni che dovevano essere promotrici di cambiamento (perché sensibili ai territori) sono divenute repliche opache e spesso incapaci di esercitare il ruolo agognato. Non serve perché risulterebbe velleitario, ricordare la necessità di riorganizzazione del sistema statale tra centro e periferia. Apriti cielo!! L’importante è intanto riuscire a conquistare le amministrazioni locali, poi …. si vedrà.
Il rischio è rappresentato dalle emergenze che circondano il paese. La più immediata e ineludibile, l’immigrazione senza sosta e senza fine. Come in Europa, gli impegni sono scarsi e le scelte di accoglienza poco convincenti. Le proteste popolari, poi, ancorché sobillate, sono realmente indice di disagio di non facile superamento a parole. Oltretutto la convinzione espressa da molti migranti in cerca di salvezza, di voler solo passare per l’Italia e andare dove si trova lavoro, indica un comune sentire a livello internazionale che ci vede inchiodati al nostro provincialismo irresponsabile.
Come questo esistono altre decine di nodi da sciogliere e non si può farlo andando all’arrembaggio, mentre dall’estero si cominciano a rivedere i segni di interesse verso di noi, ma fatti soprattutto di volontà di acquisire, comprare, controllare, ipotecare la ricchezza della quale siamo sempre espressione, ma che non sappiamo né valorizzare, né promuovere o difendere. Anche un evento come l’Expo’ 2015 rischia di lasciarci molto meno di quanto sta producendo mediaticamente. E la responsabilità è nostra non degli altri.
Ecco, guardando allo sfascio delle nostre forze politiche, alla confusione che esprimono, sia quelle più grandi che quelle medie e in via di riduzione, quel senso di spaesamento diviene vertigine. Intanto, ci si scontra senza quartiere …. a livello di quartiere!

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::autore_::di Roberto Mostarda::/autore_:: ::cck::601::/cck::

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