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Fare le riforme richiede in sostanza due elementi: il primo è farle, il secondo è superare le resistenze e i troppi nodi che si frappongono ad esse.
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Fare le riforme richiede in sostanza due elementi: il primo è farle, il secondo è superare le resistenze e i troppi nodi che si frappongono ad esse. Non è un proclama politico, ma solo una considerazione ovvia e un po’ triste, dinanzi a quanto accade ogni giorno, in ogni ambito della vita nazionale.
E’ come se vi fossero due paesi. Uno cerca di riavviare i meccanismi della ripresa tra mille difficoltà, l’altro cerca di mettere paletti e ostacoli a qualunque tentativo.
In Parlamento, nonostante la critica perenne della sinistra pd e i malumori di 5Stelle e Forza Italia, il governo continua a far approvare leggi, norme, che toccano da vicino la nostra vita quotidiana, i nostri soldi. Quel che accade nelle aule è però degno di una commedia dell’arte. All’attivismo dirigista di premier, ministri, sottosegretari si contrappone un variegato e inconcludente arcobaleno. Da una parte Sinistra e Libertà che in attesa della nuova componente di sinistra nel paese non sa che pesci prendere, perde pezzi e i suoi esponenti continuano a parlare con discorsi vetero stalinisti pur riverniciati per la politica 2.0. I 5Stelle criticano tutto e tutti senza ripensamenti, in attesa della palingenesi della politica e del paese annunciata dai guru come ineluttabili e stanno in panchina borbottando. Il partito dell’ex cavaliere o quel che ne resta continua a definirsi l’unico capace di ricostruire il centrodestra e saluta come inutili le decine di parlamentari che lo lasciano ormai da mesi e di politico dice nulla o quasi. Il vasto mondo di mezzo oscilla senza sosta come un pendolo dalla ricarica continua ma senza una direzione chiara e neppure una linea o sigla comprensibile.
Ma quel che più colpisce è che tutte le opposizioni, interne ed esterne, sembrano vivere questi mesi e forse anche i prossimi, come se il governo del paese fosse una cosa e la loro politica un’altra. Uno iato, una scissione elettrolitica che sta penalizzando però l’intera collettività nazionale. I cittadini – che i politici dovrebbero ascoltare un po’ di più – vivono in una condizione di incertezza e sfiducia nella politica e al di là di slogan qualunquistici e di parole d’ordine tanto facili da pronunciare quanto insulse e comunque “contro il governo” per definizione, non sanno più a che santo votarsi per così dire.
I nodi del quotidiano sono sempre lì, le difficoltà finanziarie anche loro. La ripresa o ripresina stenta ancora ad essere percepita anche se il tessuto produttivo e imprenditoriale sembra cogliere nuovi segnali sia nazionali che internazionali.
E che cosa fanno i politici e buona parte dei sindacati tradizionali? Si gingillano con falsi problemi o con false questioni di principio. Si beccano e si accusano nelle aule parlamentari, si accapigliano su commi e testi legislativi in modo autoreferenziale, ma mai che si percepisse una concezione del paese e delle sue necessità di insieme. E’ la prevalenza del localismo in tutte le sue forme a dettare legge, il particulare del proprio collegio, come se il proprio spazio debba comunque essere favorito nella grande tombola dei finanziamenti, incuranti dell’insieme.
Il governo parla di riforme nelle grandi aree in crisi, di interventi incisivi da fare? La risposta è che si vuole portare tutto nelle mani dell’esecutivo senza valorizzare le amministrazioni locali. Verrebbe da chiedere quali sono allora i meriti di queste ultime e perché lo stato dovrebbe soltanto fare da ufficiale pagatore dinanzi a realtà devastate e lasciate andare per decenni da giunte di ogni colore e provenienza.
Che il sistema delle autonomie sia fallito e che vada rifondato non è certo né una novità, né tanto meno una bella pensata di chi scrive. Lo sanno anche i muri che la voragine dei conti non esiste perché si è cercato di rendere vivibile ogni città, di far funzionare i servizi degni di un paese civile, ma perché si sono sperperati fiumi di denaro per scelte faraoniche ma inutili, per progetti superati dal tempo, per stipendiare archistar in preda ad autoesaltazioni pur di realizzare costosissimi progetti senza scopo, mentre le strade andavano in malora, i servizi come quelli di raccolta rifiuti finivano “nella mondezza” e così via, ma ingolfando di personale non necessario ma stipendiato e anche bene ogni ufficio, per tenere buono l’elettorato, nel più vetusto e deprecabile uso del detto latino “panem et circenses”: E poi ci si chiede perché la gente non capisce più che cosa dicono i politici e perché!
E’ sperabile che il grande vuoto di cui parliamo si ricomponga e che il paradosso si sciolga in positivo. L’essenza stessa del paese resta a rischio ed è più che mai necessario riavviarlo in una direzione chiara e responsabile. Non si può un giorno urlare contro un’industria e il giorno dopo chiedere che venga salvata dal fallimento perché se no salta l’occupazione. Le due parti del cervello devono agire insieme. Occorre stabilire se dobbiamo ancora essere un paese industriale e manifatturiero e all’avanguardia nella tecnica o invece un grande mercato di consumatori di ricchi premi e cotillons provenienti da altri paesi, come qualche decennio fa si favoleggiava tra leader del grande nord europeo. Con un piccolo particolare: per spendere bisogna avere soldi e per avere soldi bisogna lavorare e per lavorare bisogna avere occasioni di lavoro, imprese che lo creano, strutture che lo favoriscono. Non esiste il lavoro per decreto (secondo il vecchio stile sovietico). Esiste invece l’esigenza di stabilire che cosa debba essere il nostro paese, quali punti di forza debba avere, che cosa dobbiamo valorizzare di quanto esiste e agire poi senza sconti e senza ritardi.
Sveglia! Non esiste l’idea di fare riforme, ma il programma delle riforme da fare, il tempo stringe e le occasioni non si presentano tanto facilmente in un mondo che corre e si trasforma ogni giorno!
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::autore_::di Roberto Mostarda::/autore_:: ::cck::714::/cck::