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E’ talmente intuitivo e al tempo stesso significativo che al termine bomba non corrisponda una spiegazione nei dizionari capace di essere esauriente.
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E’ talmente intuitivo e al tempo stesso significativo che al termine bomba non corrisponda una spiegazione nei dizionari capace di essere esauriente. Si parla ovviamente di ordigno esplosivo, fornito di un dispositivo di accensione che ne provoca lo scoppio. Si definiscono i vari modi e le caratteristiche tecniche e di impiego. Così la bomba a mano e il suo opposto concettuale, l’atomica. In mezzo si parla di molotov o bottiglie incendiarie; di bombe carta, e poi si ragiona di come difendersi di suoi effetti. Si dice dunque a prova di bomba o riparo resistente alle deflagrazioni.
Il termine viene anche riferito ad un avvenimento, una notizia sensazionale, in certo senso dunque esplosiva. C’è poi il suo uso in gastronomia per definire dolci in pasta lievitata e ripieni di crema. Infine si definisce bomba anche ogni composto eccitante per migliorare la resa atletica, sempre contrastata perché all’origine del doping. Infine si dice tornare a bomba per indicare il rientrare in argomento.
In sostanza non troviamo nessun elemento specifico che possa spiegare con semplicità la parola in questione, quasi che si eviti sostanzialmente di dare ad essa un senso compiuto.
Il valore al quale ci riferiamo, però, ci riporta a settant’anni fa. Quando sui cieli del Giappone ad Hiroshima (e tre giorni più tardi a Nagasaki), esplosero per la prima volta in un conflitto, due ordigni nucleari, dando inizio ad una nuova e spaventosa pagina nella storia dell’uomo. Finì così, con un immenso tributo di vite umane un conflitto mostruoso che aveva coinvolto il mondo intero e messo in forse lo stesso futuro nel quale ci troviamo.
Da allora il termine “bomba” ha assunto un senso e un valore completamente differente. Evocarlo fa subito andare il pensiero a quel 6 e a quel 9 agosto del 1945 e agli anni della Guerra Fredda, del confronto tra le due grandi superpotenze gli Usa e l’Urss, al proliferare degli arsenali nucleari, al diffondersi della paura di un nuovo olocausto, questa volta di tutta l’umanità se mai qualcuno avesse dato inizio ad una guerra atomica. Da allora un ipotetico orologio segna l’ora che ci separa dalla fine nucleare, ed è sempre fermo a pochi minuti da essa.
Certamente il mondo è cambiato, le superpotenze hanno perso il loro smalto (una non esiste più) e ridotto concordemente gli arsenali, ma esistono anche altri detentori delle bombe, la Gran Bretagna, la Francia, la Cina, l’India, il Pakistan, Israele. Molti paesi emergenti ambirebbero a possederne ed esiste anche il rischio di ordigni sporchi, nelle mani di terroristi o leader senza scrupoli. Il caso più eclatante quello dell’Iran. E la potenza complessiva degli ordigni esistenti potrebbe distruggere il mondo più e più volte se mai fosse possibile!
Dunque resta sempre in piedi il paradosso. L’esistenza della “bomba”, la paura di un conflitto senza superstiti, ha costituito e costituisce il deterrente più efficace che ha permesso al mondo di vivere in uno stato di relativa pacificazione, con guerre ancora convenzionali per così dire, ma il rischio latente non cambia, la sensazione di insicurezza ancorché attutita è sempre dietro l’angolo. E quelle lancette si ostinano a non lasciare la zona rossa del rischio! E una simile prospettiva non sembra neppure indurre popoli e leader alla prudenza e a scelte per la vita e non per la morte, come quelle sempre più urgenti nel segno del recupero e della difesa dell’ambiente, altra vera e planetaria emergenza.
Ricordando il sacrificio delle prime vittime atomiche, il sindaco di Hiroshima Kazumi Matsui, ha osservato che “il ricordo deve restare vivo perché è giusto che le future generazioni sappiano”. Ma il vero lascito, il vero monito, la legacy, del bombardamento atomico, ha aggiunto “è che l’umanità non debba più trovarsi di fronte a simili tragedie”. Ecco dunque l’esortazione ai leader mondiali a “promuovere la fiducia reciproca col dialogo”, unica via per una pagina nuova libera dall’orrore del nucleare”.
Parole rituali, certamente, ma per il solo fatto che vengono da uno dei due luoghi che hanno vissuto sulla propria pelle il “fuoco atomico” e dinanzi ai pochi sopravvissuti tra dolore e sofferenze, forse parole meno rituali e più forti, pur nella loro apparente semplicità.
Parole che si attagliano perfettamente a tutte le crisi che angosciano il pianeta, che piagano la vita di milioni di uomini, che stanno facendo riemergere sentimenti negativi tra esseri umani che mai si pensava potessero rinascere.
Forse non sarebbe male far udire distintamente quel ticchettio sinistro, avvertire tutti noi dell’immanenza di pericoli per il futuro della intera umanità e far prevalere lo sforzo contrario, per allontanarci da quel rumore agghiacciante! Mai come in questo secolo il destino del pianeta è nelle mani dell’umanità! C’è da sperare che l’istinto di sopravvivenza esista ancora nel nostro dna!
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::autore_::di Roberto Mostarda::/autore_:: ::cck::715::/cck::