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E’ uno dei termini più frequenti nell’uso pubblico, nella dialettica politica e/o economica di questi mesi.
La sua etimologia richiama il latino medioevale commissarius, che deriva dal verbo committere che indica l’atto dell’«affidare»
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E’ uno dei termini più frequenti nell’uso pubblico, nella dialettica politica e/o economica di questi mesi.
La sua etimologia richiama il latino medioevale commissarius, che deriva dal verbo committere che indica l’atto dell’«affidare». In linea generale indica un funzionario cui sono affidati determinati compiti e poteri, sia in modo ordinario e permanente, alla direzione o con la responsabilità di determinati uffici, sia in modo temporaneo, per l’amministrazione straordinaria di enti pubblici, in sostituzione degli organi normalmente previsti dalle leggi, o con altri particolari incarichi; la funzione è di solito indicata dalla denominazione ufficiale del funzionario. Si parla di commissario ad acta, giudiziale, governativo, prefettizio, politico (in questo senso è legato soprattutto alla storia dell’organizzazione dei partiti comunisti). Si parla poi di commissario di polizia, di commissario d’esame e via dicendo.
Qualsiasi sia la definizione operativa, resta il fatto che l’affidamento che a questa figura si fa deriva dall’inadempimento, dall’incapacità, dalla impossibilità di organi ordinari di esercitare il proprio compito e di svolgere le proprie mansioni. Di commissari, anche temporanei, è disseminata la vita pubblica e amministrativa del nostro paese. E, in ossequio al detto popolare che in Italia non c’è nulla di più definitivo del provvisorio, spesso vi sono commissari ad acta all’opera da decenni senza che alcuno si sia peritato di analizzare risultati, accertare l’avvenuta attuazione dei compiti affidati.
Stupisce dunque, per il dibattito e il clamore, la vicenda che vede al centro la capitale, dove il prefetto viene chiamato a svolgere compiti di affiancamento e controllo dell’operato del primo cittadino. Il governo con un occhio alla necessità di capire cosa accade a Roma – anche in vista del Giubileo straordinario indetto dal Papa – e un altro ai possibili esiti politico-elettorali, della singolare e deficitaria azione del sindaco, ha deciso qualcosa che i manuali giuridici non prevedono: il commissario ombra, ossia una sorta di araba fenice che “vi sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”. In pratica, questo il senso, la situazione catastrofica della capitale attanagliata dal crimine e l’azione inconsulta ed improvvida del primo cittadino (assente peraltro in momenti cruciali e pervicacemente in vacanza, anche quando la normalità richiederebbe la presenza del rappresentante primo delle istituzioni), ha indotto a mettere in piedi un meccanismo che altro non è che l’esercizio più pieno e lineare dei poteri prefettizi. Con un accenno in più: il valore sostanzialmente commissariale dell’affiancamento. Il risultato è quello indicato da un ex sindaco, come Rutelli, nel dire che dopo millenni, Roma torna ad avere “due consoli”. Con il particolare non secondario che il prefetto ha annunciato di voler esercitare appieno le sue competenze sino a giungere, se necessario, allo scioglimento dell’amministrazione cittadina (dopo quella dell’ormai impresentabile municipio di Ostia).
Sin qui siamo agli epigoni di monsieur de La Palisse – che come noto, nella battaglia di Pavia, un quarto d’ora prima di morire era ancora in vita – ovvero il prefetto da quando la sua figura è stata istituita ha la vigilanza sull’amministrazione comunale, rappresentando lo Stato e l’esigenza che esso possa controllare e se opportuno intervenire nei casi di cattiva o insufficiente amministrazione, sino allo scioglimento, previsto nientedimeno che dalle più antiche leggi in materia.
Si dirà: non si può pensare di commissariare la capitale del Paese in un momento come questo, in vista di un evento mondiale e dinanzi ai grandi problemi da affrontare. La scelta ovviamente può e deve essere oggetto di ampia e avveduta analisi. Tuttavia, constatare che il prefetto ha affermato di aver sentito il sindaco più volte in queste settimane “tra un’immersione l’altra” di quest’ultimo (sic! secondo le fonti di stampa), in vacanza negli Usa, non può non porre al di là di una scontata ilarità e comicità che come insegna la storia hanno sempre connotati tragici, un serio, fondato interrogativo: ma di che cosa stiamo parlando?
I consoli hanno retto le sorti della Roma repubblicana sino all’avvento dei Cesari; oggi, uno stato serio ed efficiente che cosa può fare per evitare eventi simili? Il commissario è il commissario. Se lo è lo deve poter essere senza indugiare in colloqui ameni con un sindaco assente! Non è pensabile una diarchia nella quale prima di decidere anche atti definitivi, il commissario debba parlare o consultare il primo cittadino deficitario! Siamo all’assurdo, alla commedia degli equivoci! Roma ha diritto di sapere che cosa accadrà nei prossimi mesi, di veder esercitare funzioni che la legge prevede nell’uno come nell’altro caso, senza confusioni e pantomime.
Siamo certi che il prefetto non si lascerà imbrigliare nelle maglie di un sistema che anche con il sindaco attuale, per troppo tempo è stata gestita da due figure come Buzzi e Carminati (il gatto e la volpe di mafia capitale).
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::autore_::di Roberto Mostarda::/autore_:: ::cck::747::/cck::