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Recep Tayyip Erdogan ha deciso di giocarsi il tutto per tutto. La posta in gioco delle elezioni politiche in programma domenica primo novembre è di quelle in grado di modificare gli assetti di tutto il Vicino Oriente.
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Recep Tayyip Erdogan ha deciso di giocarsi il tutto per tutto. La posta in gioco delle elezioni politiche in programma domenica primo novembre è di quelle in grado di modificare gli assetti di tutto il Vicino Oriente.
I cittadini turchi, infatti, non saranno solo chiamati a definire la composizione del prossimo parlamento di Ankara, ma dovranno esprimersi sull’operato del presidente Erdogan, al potere da oltre 13 anni.
Dopo il flop delle elezioni svoltesi nel giugno scorso che avevano privato il leader dell’AKP della maggioranza assoluta e dopo gli infruttuosi tentativi portati avanti dal premier Ahmet Davutoglu di formare un governo di coalizione, la decisione di tornare alle urne rappresenta un vero e proprio referendum sull’effettiva capacità di Erdogan di garantire alla Turchia un ruolo di leadership nella regione. Principale avversaria del partito islamista Giustizia e Sviluppo, la formazione dei curdi moderati HDP che nelle elezioni di giugno aveva ottenuto il 13% dei consensi.
Un successo inaspettato, figlio della svolta autoritaria voluta da Erdogan negli ultimi anni che aveva spinto molti turchi moderati a votare per il partito democratico del popolo. Proprio i sostenitori dell’HDP sono stati oggetto negli ultimi mesi di attacchi sanguinosi, culminati con le stragi di Suruc a luglio e di Ankara il 10 ottobre, che hanno lasciato sul terreno oltre cento vittime. Una strategia della tensione voluta dal presidente turco, anche se le responsabilità dirette per gli attentati sono da addebitare a militanti dello stato islamico.
La mancanza di prevenzione nelle aree interessate dalle azioni terroristiche, la campagna mediatica contro ogni forma di opposizione, la decisione di riaprire il conflitto, sopito negli ultimi anni, con il PKK, portano la firma diretta del governo centrale. Il messaggio di Erdogan al popolo turco è chiaro: o mi date un mandato forte e assoluto per gestire il paese oppure sarà il caos. Una sorta di ricatto che sta spingendo la Turchia ai margini della comunità internazionale.
Neanche la recente visita ad Ankara della cancelliera tedesca Angela Merkel, recatasi alla corte di Erdogan per concordare insieme alle autorità turche una via d’uscita al dramma dei profughi diretti in Europa, sembra aver ridato legittimità alla leadership islamista. Troppe le ombre sull’operato del governo turco, a partire dall’atteggiamento tenuto nei confronti delle formazioni combattenti dello stato islamico.
Ma l’irritazione dell’Europa e degli Stati Uniti riguarda soprattutto il giro di vite imposto ai media non allineati con l’esecutivo. Nell’ultimo periodo sono stati chiusi quotidiani e siti internet colpevoli di sostenere le proteste di piazza. Anche i cosiddetti social-network sono stati oggetto di censura quando hanno veicolato immagini ed opinioni dissenzienti rispetto alla linea governativa. Una situazione esplosiva dunque che nel bene o nel male avrà nell’esito delle elezioni di domenica una chiara definizione degli assetti di potere, per la Turchia e per tutta la matassa di interessi che dal gigante anatolico si diramano in tutta la regione, Europa compresa.
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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::850::/cck::