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Recep Tayyp Erdogan ha vinto la sua partita più difficile. Le elezioni politiche svoltesi domenica scorsa hanno consegnato la maggioranza assoluta all’AKP…
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Recep Tayyp Erdogan ha vinto la sua partita più difficile.
Le elezioni politiche svoltesi domenica scorsa hanno consegnato la maggioranza assoluta all’AKP, consentendo così al suo sodale, il premier Ahmet Davutoglu, la formazione di un governo senza la necessità di scomode alleanze con gli altri partiti.
Una vittoria che riporta Erdogan al centro della scena politica, non solo in Turchia ma soprattutto nella regione del Vicino Oriente, devastata da guerre e tensioni al calor bianco.
Una tornata elettorale estremamente complicata, dopo gli attentati di Suruc e di Ankara e l’acuirsi del conflitto con le formazioni curde del PKK. Il fattore curdo, sia nelle declinazioni moderate, rappresentate dal partito HDP, che in quelle estremiste del partito comunista dei lavoratori, è stato l’imprescindibile snodo su cui si è incentrato il dibattito politico negli ultimi mesi. Da quando cioè, nelle elezioni dello scorso giugno, l’inaspettata affermazione del partito democratico del popolo, aveva privato l’AKP della maggioranza assoluta in Parlamento, dopo oltre 13 anni di potere incontrastato.
E’ a quel punto che Erdogan ha deciso di giocarsi il tutto per tutto, indicendo nuove elezioni e inasprendo le azioni contro i peshmerga, dopo aver congelato le trattative che da oltre un biennio andavano avanti con le formazioni curde combattenti. Una scelta che ha fatto impennare la tensione in tutta la Turchia, spingendo l’elettorato più conservatore a coalizzarsi sulle posizioni del suo presidente, visto come l’unica figura in grado di garantire la stabilità nel paese.
A fornire il supporto decisivo alla strategia dell’AKP è stata quella Turchia profonda, rurale, che nell’ultimo decennio aveva visto migliorare considerevolmente le proprie condizioni di vita.
Meno accondiscendente invece nei confronti della strategia del sultano la Turchia mediterranea, soprattutto nelle città di Istanbul e Smirne, dove le nuove generazioni avevano intrapreso nell’ultimo anno imponenti dimostrazioni contro la deriva autocratica del governo di Ankara. Contestazioni spesso represse con durezza dagli uomini di Erdogan, consapevoli della potenziale forza dei movimenti dal basso, responsabili delle fioriture delle cosiddette primavere arabe e della conseguente caduta dei regimi contestati.
La vittoria elettorale dell’AKP di Erdogan inevitabilmente avrà dei riflessi sulla guerra civile che dal 2011 si sta combattendo in Siria. Anche qui, più della caduta del leader alauita Bashar al Assad, le preoccupazioni di Ankara sono rivolte alla possibile creazione di uno stato curdo nel nord del paese.
La lettura della situazione delle vicende siriane da parte degli strateghi di Erdogan è semplice. Un’entità autonoma curda ai propri confini inevitabilmente estenderà la propria influenza ai clan della stessa famiglia all’interno del paese, creando, nel medio periodo, le condizioni per riunire la grande e apolide comunità curda della regione. Uno scenario apocalittico per la Turchia, disposta a tutto pur di sabotarlo, anche foraggiando una guerra civile dai costi altissimi per l’una e per l’altra parte.
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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::862::/cck::