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Nell’incandescente panorama nordafricano, dilaniato da guerre tribali e quotidiani attentati, c’è un paese che, tra mille contraddizioni, sembra essere riuscito a porre un freno alla devastante ondata di terrore: l’Algeria.
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Nell’incandescente panorama nordafricano, dilaniato da guerre tribali e quotidiani attentati, c’è un paese che, tra mille contraddizioni, sembra essere riuscito a porre un freno alla devastante ondata di terrore: l’Algeria.
La nazione più francofona dell’intero Maghreb sembra aver imparato bene la lezione della guerra civile che per tutti gli anni ’90 ha opposto i militanti del FIS, il Fronte islamico di salvezza, a quelli del FLN, il Fronte di liberazione nazionale. Un conflitto interno costato la vita a migliaia di persone che ha forgiato almeno due generazioni di algerini, disposte a sacrificare una consistente parte delle libertà individuali pur di non tornare alla spirale di violenza che ha dominato quel decennio. Merito del presidente Abdelaziz Bouteflika, che ha messo a punto un apparato di sicurezza in grado di prevenire nuovi focolai di tensione.
Una calma apparente che potrebbe essere spazzata via, da un momento all’altro, da nuove scosse di assestamento provocate dai gruppi jihadisti profondamente radicati nella società algerina.
In quest’ottica particolarmente caldo lo sterminato fronte meridionale, vera cassaforte delle ricchezze energetiche del paese. In tutta l’area sahariana sono infatti attive formazioni combattenti che hanno dato prova di audacia e capacità operativa non comune. Tra queste spicca il gruppo che fa capo a Moktar Belmokthar, combattente di lungo corso che si è fatto le ossa nella guerra in Afghanistan negli anni ’80 per poi esportare nelle sabbie del deserto la sua strategia del terrore. A lui sono addebitati diversi attentati, tra i quali spicca l’attacco alla raffineria di In Amenas, costato la vita a decine di persone, tra le quali diversi tecnici occidentali.
A differenza della costa mediterranea, dove il governo algerino è riuscito in qualche modo ad infiltrarsi nei gruppi islamici più radicali, controllare le pulsioni jihadiste delle tribù del deserto è assai più complicato. Complice soprattutto la situazione libica che, dalla caduta di Gheddafi, rappresenta un serbatoio di forniture militari pressoché illimitato per i gruppi combattenti di tutta la regione.
Oltre all’approvvigionamento di uomini e mezzi, la Libia costituisce inoltre un impenetrabile rifugio dai blitz delle forze governative. L’effetto domino che potrebbe partire dall’ex colonia italiana rappresenta il maggior pericolo per la stabilità dell’intera area.
Tornando alla politica del governo di Algeri, il presidente Bouteflika ha da qualche mese messo a punto una riforma dei servizi di sicurezza, rimuovendo almeno una cinquantina di alti ufficiali delle forze anti-terrorismo. Nelle intenzioni dell’ottuagenario leader algerino c’è un’accentramento del potere, ai suoi occhi unica garanzia sostenibile affinché il paesi non scivoli in una spirale di guerra tra potentati per la sua successione. Una strategia messa a punto grazie alle informative dei servizi di sicurezza francesi, più che mai preoccupati per la sorte del gigante nordafricano, soprattutto dopo i devastanti attacchi terroristici di Parigi. Non estranea ad un appoggio incondizionato a Bouteflika anche l’Italia, in virtù dei rifornimenti di gas algerino fondamentali per l’approvvigionamento energetico del nostro paese. La certezza della nostra intelligence è che se, oltre a Libia e Tunisia, dovesse infiammarsi anche l’Algeria, per tutta l’area mediterranea sarebbe l’inizio di una catastrofe dalle proporzioni inimmaginabili.
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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::973::/cck::