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Arabia Saudita: il regime che non vuole cambiare

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"President and First Lady Obama, With Saudi King Salman, Shake Hands With Members of the Saudi Royal Family" di U.S. Department of State from United States
L’esecuzione dell’imam sciita Nimr Baqr al-Nimr, decapitato a Ryad insieme ad altre 46 persone all’alba del nuovo anno, rappresenta l’ennesimo sanguinoso capitolo della disfida che sta opponendo l’Iran all’Arabia Saudita.

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L’esecuzione dell’imam sciita Nimr Baqr al-Nimr, decapitato a Ryad insieme ad altre 46 persone all’alba del nuovo anno, rappresenta l’ennesimo sanguinoso capitolo della disfida che sta opponendo l’Iran all’Arabia Saudita.
Il carismatico religioso era stato arrestato nel 2012 dopo un conflitto a fuoco con la polizia e da allora detenuto in un carcere di massima sicurezza in attesa del verdetto finale. A spaventare le autorità saudite l’influenza di Nimr al-Nimr sulla comunità sciita del paese, maggioritaria nella regione orientale della penisola arabica, da sempre spina nel fianco dell’ultraconservatore dinastia regnante.
Lo sceicco infatti è stato tra i promotori dei moti di protesta durante le cosiddette primavere arabe, destando da allora enorme preoccupazione nel regime di Ryad, spaventato per l’eventuale secessione delle provincie orientali, nel cui sottosuolo sono concentrate le maggiori riserve di greggio del paese. La condanna a morte di Nimr al-Nimr ha suscitato un’ondata di rabbia in tutto il mondo sciita, soprattutto in Bahrein ed in Iran, dove la guida suprema l’ayatollah Ali Khamenei ha annunciato ritorsioni per la brutale esecuzione.
Anche le cancellerie occidentali hanno espresso preoccupazione per l’escalation della tensione tra le comunità sciite e sunnite nel mondo arabo, infiammato da guerre e conflitti tribali causati dalle faide interreligiose. La situazione è particolarmente critica in Yemen, dove è in corso un aprissimo conflitto tra i ribelli Houty e il contingente sunnita capitanato dall’Arabia Saudita. Autorevoli commentatori di questioni mediorientali hanno inoltre messo in relazione l’offensiva del governo di Baghdad nei confronti degli uomini dello stato Islamico, culminata con la riconquista di Ramadi, con l’esecuzione del religioso sciita.
Non è un mistero infatti che la dinastia saudita abbia foraggiato l’ascesa del califfato in Iraq e Siria in chiave anti Iran e che l’offensiva internazionale contro le formazioni jihadiste abbia pregiudicato il disegno di creare uno stato sunnita tra i due paesi.
Ad innescare l’interventismo di Ryad c’è indubbiamente lo sdoganamento internazionale dell’Iran voluto fortemente dagli Stati Uniti. Uno scenario che sta spingendo l’ottantenne re Salman ad agire su più fronti, nel tentativo di arginare l’avanzata dell’islam sciita in tutto il medio-oriente. Ma le angosce più grandi per i principi sauditi sono dovute a quello che potrebbe avvenire all’interno del regno. Il crollo del prezzo del greggio, massima fonte di ricchezza del paese, in grado in questi anni di radicali cambiamenti di calmierare una situazione sociale da regime medioevale, rischia di dar luogo a movimenti di protesta che potrebbero rovesciare la corrotta monarchia regnante.
In quest’ottica l’esecuzione del religioso sciita rappresenta un’azione preventiva contro eventuali sommosse di piazza. Perché se il clan sunnita al potere da quasi un secolo verrà costretto a farsi da parte, sarà sotto la spinta della minoranza sciita. Minoranza appunto, ma seduta sulla vera cassaforte della nazione.

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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::998::/cck::

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