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Eritrea, Afelba e Asmara soprattutto. Estate 1899. Un’alba di fine giugno un lavorante nei campi viene trovato appiccato al ramo di un enorme sacro sicomoro…
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Eritrea, Afelba e Asmara soprattutto. Estate 1899. Un’alba di fine giugno un lavorante nei campi viene trovato appiccato al ramo di un enorme sacro sicomoro, non lontano dalla stazione dei carabinieri di Saganeiti, la mattina dopo i suoi due fratelli impiccati allo stesso modo, il giorno dopo ancora appeso il marchese Carlo Maria Sperandio, imprenditore coloniale. A quel punto dalla capitale partono il comandante della Compagnia dei carabinieri reali d’Africa nella colonia d’Eritrea, lo spartano putignanese capitan Piero Colaprico, e il suo fido assistente graduato indigeno (buluk-bashi degli zaptiè), brigadier Ogbagabriel Ogbà. I militari del forte Toselli, sulle vicine alture, non li accolgono con gioia. I due scoprono comunque anche una vecchia strega accoltellata nella capanna, nonostante le rabbiose iene che la difendevano, cosa accidenti sta accadendo? E i morti non sono finiti. Il marchese lascia Anna Maria, algida moglie e antica fiamma di Colaprico, e Teklè Cittina Mariàm, fiera intelligente moglie segreta, con una figlia. Voleva produrre vino e forse aveva trovato altre risorse naturali. Il saggio violento capo del villaggio Bashà Busrù aiuta a far giustizia.
Carlo Lucarelli (Parma, 1960) prosegue la documentata serie coloniale con un nuovo bel romanzo (altri ne sono presto previsti), in terza varia, intercalando di continuo termini in tigrigna (traslitterati) e incisi dialettali (romagnolo e non solo). Il titolo fa riferimento alla immediata fine del tempo dei sogni, nel rapace colonialismo italiano, sempre più sanguinario. Un sogno era produrre il Chianti eritreo. Alcuni personaggi, come l’avvocato faccendiere Cagnassi e il governatore Martini (che scrisse un utile diario) sono figure storiche. I due protagonisti, invece, si ispirano ai grandi Holmes e Watson. La calva baffuta spalla abissina (il cui nome viene dal nonno della dolce moglie Yodit) serve a far sapere meglio le cose ai lettori; ovviamente Ogbà non può aver letto Conan Doyle anche se lo “usa” come lo conoscesse: “non c’è niente di più innaturale dell’ovvio”. Riesce bene ad accudire Manna e i cinque figli. La moglie ricambia e in un battibaleno prepara al capitano culuà con ingera, agibò, senàfec e kichà (spezzatino, crêpe, ricotta, senape e pizza), beate lei!
v.c.
Colonie
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