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Qualche autorevole voce tra i commentatori politici ha posto l’attenzione recentemente sul singolare scenario che appare nel nostro paese quando si affronta il tema delle riforme.
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Qualche autorevole voce tra i commentatori politici ha posto l’attenzione recentemente sul singolare scenario che appare nel nostro paese quando si affronta il tema delle riforme. Come spesso abbiamo sottolineato in queste riflessioni quando si parla di riforme che attengono alle istituzioni e alle strutture e articolazioni dello Stato, si assiste alla scomposizione e ricomposizione variabile del mosaico politico. Nulla è come sembra, nessuno si trova dove dovrebbe o si posiziona dove si immaginerebbe! Una situazione non solo sconcertante ma che segna in modo clamoroso il vuoto pneumatico e la distanza che certa politica ha nei confronti della realtà del paese, del suo lento e a volte complesso evolversi.
Negli ultimi oltre vent’anni, dallo scoppio di mani pulite in poi (ma qualche elemento era già presente nella fine della prima repubblica) la risposta alle domande degli italiani in tema di giustizia, lavoro, efficienza del sistema, produttività, e così via, è stata gestita in due modi: da un lato la politica sembrava volare alto alla ricerca di un nuovo equilibrio costituzionale adeguato ai tempi cambiati, dall’altro la traduzione sul campo è stata episodica, spezzettata, dettata più dalla contingenza anche drammatica che dalla coerenza e consapevolezza con un disegno da porre in essere. Questa dicotomia ha prodotto una serie di distanze.
La prima, il paese in forte rallentamento aveva bisogno di strumenti agili ed intelligenti per riavviare quella ripresa che è sempre nelle corde dell’imprenditorialità italiana e anche nel cuore di chi vuole lavorare e contribuire alla crescita del paese. Sono invece arrivate soluzioni occasionali, dettate dalla maggioranza di governo di turno sempre in contrasto con la precedente, ed incapaci di infondere fiducia nel sistema alle prese poi con l’inevitabile ingigantirsi della pressione fiscale dettata dalle necessità di mantenere in moto la macchina pubblica anche se non è chiaro per quale finalità positiva.
La seconda distanza è quella della quale si sente ancora l’eco: quella che la politica ha creato nei confronti della gente e delle esigenze manifestate dalle parti sociali ad ogni occasione. Il principio era: dobbiamo discutere sul nuovo modello di stato, non abbiamo tempo per occuparci dei meccanismi economici e delle vischiosità che li rendono inefficienti: tradotto, fate voi! Con tutti i rischi sottesi a questo apparente lassismo. Corollario di verità a questa lontananza, quella creatasi anche tra le organizzazioni sindacali mai emancipatesi realmente dalla referenza politica o ideologica di una volta, e la realtà della rappresentanza degli interessi di chi lavora. Questi ultimi si sono allontanati sempre più dal sentire dei sindacati “ufficiali” e si sono avvicinati a forme di corporativismo e settorialismo ancora presenti e ancora dannosi. Le grandi organizzazioni, al di là di buone volontà e sensibilità, hanno perso il treno e con ciò hanno creato le premesse di quella situazione che è sotto gli occhi di tutti. Dove cioè ognuno richiama per sé gli interventi e le necessarie crescite dei salari dimenticando il sistema. Peraltro, tutti i settori sono in sofferenza e in ritardo. I contratti non vengono rinnovati da anni, se non da un decennio e quando lo sono devono prendere atto che la famosa coperta è sempre più corta e , soprattutto, sempre più lisa, ai limiti della rottura.
Queste distanze si sono allargate con la fine tumultuosa del ventennio berlusconiano e con la cesura “istituzionale” dei governi tecnici del presidente che ne sono seguiti. Il che non ha certo migliorato il rapporto tra i cittadini e la politica.
Sintomatico della situazione magmatica, il comporsi, scomporsi e ricomporsi della geografia politica e parlamentare. Nel corso di una legislatura ancora a metà, quel che rimaneva della seconda repubblica con le sue contraddizioni sembra liquefatto e non ha dato luogo ad alcunché di sensato. I partiti politici come la dottrina ci ha insegnato, non esistono più, nascono a ogni piè sospinto movimenti legati a una persona, di solito un parlamentare, che lascia la propria parrocchia per costruire qualcosa che il gruppo di provenienza “ha tradito”. Così leggere la divisione all’interno delle Camere diviene esercizio dialettico. Ogni giorno è possibile che una, due, o più persone trasmigrino, si accingano a farlo, annuncino di farlo, minaccino di farlo. Il risultato è quello che riguarda il voto: un 40 per cento di italiani non vota con ciò creando la più forte area politica nazionale. Così nelle assemblee parlamentari il gruppo misto o i suoi succedanei, divengono apparentemente forze con le quali è necessario dialogare per far andare avanti i lavori, le proposte di legge, l’esame delle leggi e via così!
Una iattura che non lascia indenne nessuna delle aree politiche identificabili come maggiori. Neppure i cinquestelle che dovevano essere immuni dai vizi parlamentari e politici. La prevalenza del misto, potremmo definirla, che non annuncia nulla di positivo, semmai è solo sinonimo di confusione, di indistinto, di trasformista all’ennesima potenza.
Ora si scopre che questa deriva sembra cogliere anche le dinamiche europee dove il governo comune (identificabile nella Commissione e nel Consiglio dei capi di Stato e di governo) si sta scomponendo in diverse possibili Europe: quella del nord e del sud, quella del’ovest e dell’est, quella neolatina, quella tedesca, quella anglosassone, quella mediterranea! Con l’evidente risultato di grande confusione e di scarsa efficienza soprattutto nelle emergenze.
Lo scontro tra il presidente della Commissione Juncker e il premier italiano Renzi, al di là di personalismi esasperati vicendevolmente, manifesta proprio quanto sta accadendo. La Commissione sta interpretando la volontà di una parte (la più forte in apparenza) contro le altre che si contrappongono dai paesi euroscettici a quelli scettici per l’attuale Unione (come l’Italia). E questo avviene con l’impiego di strumenti di pressione economica e finanziaria che tengono conto dei punti deboli di certi paesi (sui quali si batte senza sosta) dimenticando l’essenza stessa delle fondamenta dell’avventura europea comune: la solidarietà tra paesi e popoli e lo sforzo di equilibrare le disuguaglianze ma senza lavagne di buoni e cattivi. Cioè integrando e non accentuando le separazioni per paura, egoismo, grettezza! Certamente a questo non si risponde con battute e sfottò, ma con argomenti seri e fondati sul lavoro di riforma e di sviluppo che ogni paese sta intraprendendo e deve continuare a intraprendere. Quando si cresce, come persone, sono necessari momenti di equilibrio e momenti di spinta ed è in questi secondi che si misura la volontà di andare avanti. Così anche per un concerto di entità statuali che tali completamente non sono più facendo parte di un insieme!
In ogni caso, nazionale o europeo, non è con geometrie variabili di alleanze e maggioranze che si risolve la congiuntura, ma con scelte strategiche che tengano conto di tutti, di coloro che trainano (anche se non tutto è oro quel che luce) e di coloro che faticano. Solo insieme si sopravvive, altrimenti nessuno e tanto meno il sogno europeo avrà mai compimento e il vecchio continente sarà solo oggetto di studio del manuali di storia tra qualche decennio, come esempio di uno scempio coscientemente portato avanti senza il minimo discernimento politico, strategico, economico e sociale!
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::autore_::di Roberto Mostarda::/autore_:: ::cck::1025::/cck::