Da qualche tempo assistiamo, sono molti i commentatori a sottolinearlo, ad una sorta di appannamento, di rallentamento di quella che una volta si sarebbe definita spinta propulsiva del governo.
Da qualche tempo assistiamo, sono molti i commentatori a sottolinearlo, ad una sorta di appannamento, di rallentamento di quella che una volta si sarebbe definita spinta propulsiva del governo. Più in particolare e più correttamente quel che accade è un evidente allargarsi della distanza tra le parole chiave del programma improntate alla rapidità, incisività ed efficacia dei provvedimenti e la loro pratica attuazione che “sconta” il passaggio parlamentare e quello del confronto con le parti sociali.
Il mantra del premier è sempre lo stesso: noi facciamo le cose, non ne parliamo soltanto da decenni; noi decidiamo invece di trattare per non decidere. E questo anche a costo di rompere equilibri ed equilibrismi pluridecennali che hanno condannato il Paese all’immobilismo dannoso che lo attanaglia ancora in troppe sue articolazioni.
E’, però, indubitabile che la volontà di andare avanti di governo e maggioranza abbia incontrato ed incontri resistenze sempre più pervicaci quanto vane e che tutte si tingano, come al solito, di toni apocalittici, di richiami a timori per la libertà e la democrazia. E’ un dato di fatto con il quale è opportuno fare i conti cercando come Renzi sta facendo di interpretarne i punti positivi per riuscire a scardinare le resistenze e a muovere comunque sul terreno delle riforme e della ripresa. Riprova di questa situazione l’incremento continuo di ricorso alla fiducia in Parlamento, strumento usato più per confermare e compattare le fila della maggioranza che per contrastare opposizioni confuse e divise al loro interno.
In primis va detto che i richiami epocali e quelli ai rischi per la democrazia sarebbero degni di miglior causa e fanno parte di un vecchio bagaglio ideologico ormai frustro ma che stranamente ha trovato e trova epigoni anche in territori politici lontani dall’originale. Non perché il rischio sia reale, ma perché fa comodo che si possa evocare. E’ la perenne sindrome del nemico da combattere e da abbattere che si vorrebbe non abbandonasse mai la dialettica politica nazionale. Un fare politica che ha bisogno di totem e di bersagli facili per tentare di infiammare gli animi di un paese ormai molto più “laico” e meno ideologico di qualche decennio fa e alle prese con problemi reali e non presunti, quotidiani e non epocali come lavoro, povertà, stabilità sociale e familiare.
Ascoltare dunque esponenti delle opposizione alzare alti lai per il tentativo “autoritario” del premier e del governo dovrebbe indurre al sorriso più che alla mobilitazione. Cosa che infatti accade sempre più di frequente nonostante il continuo operare per costruire un racconto di soli toni cupi della realtà nazionale, guardando sempre il bicchiere mezzo vuoto.
Tanto più le lamentazioni e le critiche diventano visibilmente irrazionali e umorali, tanto più si ha la sensazione che nonostante eccessi retorici, velleitarismi giovanili e qualche azzardo, l’azione di cambiamento impressa al paese sia quella del quale ha bisogno.
Certo i nodi sono immensi e le questioni intricate al punto da rendere difficile persino l’approccio per cominciare ad attaccarli. Ma una cosa è certa: da decenni si parla di cambiare il Paese ora almeno si prova a farlo. E che a far questo sia un quarantenne dopo decenni di governi di settantenni e oltre, non è poi una notizia così brutta, soprattutto per l’assenza di incrostazioni ideologiche tanto profonde quanto inutili e dannose per i suoi stessi sostenitori prima ancora che per l’intera collettività nazionale.
Ed è altrettanto evidente che il lavoro di premier e maggioranza sia arduo e ancora tutto da costruire malgrado qualche importante mattone già piazzato. Abbiamo titolato l’articolo con riferimento al romanzo di Goethe “I dolori del giovane Werther” non tanto per attinenza degli argomenti, quanto per un semplice richiamo culturale e alla relativa giovane età del presidente del consiglio e di molta parte della compagine governativa e anche in omaggio ad un’opera considerata simbolo del movimento dello Sturm und Drang e anticipo dei molti temi che saranno propri del romanticismo tedesco ed europeo.
Una citazione certo, ma vicina a quello al quale assistiamo in una fase di cambiamento questo sì epocale, di stili di vita, di modi di intendere il lavoro, l’economia, la stessa convivenza internazionale. E nella quale come oltre due secoli fa la tempesta e l’impeto erano nelle cose naturali e la battaglia era con l’immobilismo e l’incapacità di concepire il cambiamento forieri di paura e di reazioni violente e scomposte per fermare il nuovo.
A dimostrazione di questo, oggi, è proprio il confronto sulle unioni civili a dare l’indicazione di percorso: non si può non riconoscere, in uno stato laico, il diritto delle persone anche se va contemperato con quello dell’intera comunità nelle sue varie sfaccettature e sensibilità. Uno sforzo non secondario e necessario perché se superato avrà contribuito a disincrostare molti punti di pregiudizio e di anelasticità e soprattutto avrà messo in crisi un modo di fare politica e di porre veti e altolà non soltanto su temi delicati come quello indicato, ma anche sulla semplice gestione del cambiamento della struttura dello Stato, dell’efficienza della pubblica amministrazione, della dinamicità del sistema imprenditoriale, del miglioramento delle dinamiche sociali. Un cambiamento che sta attecchendo anche nelle teste degli italiani più di quanto si pensi e che altro non è che l’avanzare di ciò che deve essere fatto e che andava fatto non ieri, o l’altro ieri, ma il secolo scorso!
Dunque i dolori del giovane Renzi saranno ancora molti, ma altro non sono che quelli di un Paese che ha necessità impellente di voltare qualche pagina per sempre, liberandosi di pastoie e ostacoli dei quali dovrebbero essere consapevoli, e lo sono, per primi proprio coloro che li frappongono!
di Roberto Mostarda