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Delle tre condizioni poste dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi per un intervento italiano in Libia, una risulta particolarmente lontana dal realizzarsi…
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Delle tre condizioni poste dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi per un intervento italiano in Libia, una risulta particolarmente lontana dal realizzarsi: quella relativa ad un accordo stabile e duraturo tra le due formazioni più importanti che si contendono il controllo del territorio, Fajr Lybia predominante a Tripoli e le milizie del generale Haftar egemoni a Tobruk.
Due entità estremamente diverse sia dal punto di vista politico/sociale sia da quello inerente alle alleanze internazionali.
Fajr Lybia infatti è un’aggregazione di combattenti che si ispira alla fratellanza musulmana ed è sostenuta da paesi come Turchia e Qatar, gli stessi che avevano appoggiato l’esperienza di Mohammed Morsi in Egitto.
L’esercito del generale Haftar, ex ufficiale gheddafiano riparato per un lungo periodo negli Stati Uniti, è invece un’emanazione diretta dei militari al potere in Egitto, gli stessi che hanno defenestrato il presidente Morsi e che stanno conducendo una caccia spietata contro i membri della fratellanza in tutto il paese.
Il parlamento di Tobruk è peraltro l’unico legittimamente riconosciuto dalla comunità internazionale mentre l’assemblea di Tripoli, seppur rappresentativa di quasi tutta la regione della Tripolitania, non gode di riconoscimenti stranieri. Differenze profondissime che fanno sorgere tra i maggiori esperti, molti di questi italiani, più di una perplessità riguardo all’effettiva praticabilità di un’alleanza duratura tra le due maggiori espressioni della realtà libica. Proprio per questo il nostro Consiglio supremo di difesa riunitosi in settimana ha marcato la proprie condizioni per una missione militare a guida italiana in Libia, nonostante il pressing della NATO e soprattutto degli Stati Uniti.
La tragica vicenda che ha visto protagonisti i tecnici della ditta Bonatti conclusasi a Sabratah, dimostra che un’operazione su vasta scala al fine di stabilizzare il paese potrebbe partorire una situazione ancora più ingarbugliata di quella odierna. Mentre la morte di Salvatore Failla e di Fausto Piano e la liberazione di Gino Pollicardo e Filippo Calcagno sono ancora avvolte nel mistero, appare però chiaro che il territorio libico è ormai alla mercé di bande che spesso e volentieri cambiano bandiera ed obiettivi strategici e per questo assolutamente inaffidabili per dei progetti a medio termine.
In questo contesto il tanto sbandierato pericolo dell’IS appare una variante difficilmente in grado di confederare una miriade di tribù da sempre in conflitto tra loro. Gli avamposti in Libia del califfato in questo momento si concentrano infatti nell’area della città di Sirte, un tempo feudo incontrastato del clan Gheddafi. Una situazione che dimostra come la tribù dei warfalla, la più influente della Tripolitania, ai vertici per quarant’anni della laicissima Jamahairiya, sia ora la culla dei miliziani del califfato.
In Libia d’altronde l’unico tessuto connettivo stabile sono le tribù e non le bandiere che con tatticismo si sventolano all’occorrenza. La prudenza dimostrata dalle nostre istituzioni appare dunque del tutto giustificata. I metodi per interferire ci sono, ma sarà il popolo libico a decidere il proprio futuro, con i tempi ed i metodi che riterrà più opportuni.
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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::1119::/cck::