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Ormai siamo giunti ad un nuovo copione del terrorismo, una sorta di 2.0. Bruxelles, simbolo del cuore dell’Unione Europea…
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Ormai siamo giunti ad un nuovo copione del terrorismo, una sorta di 2.0. Bruxelles, simbolo del cuore dell’Unione Europea, teatro privilegiato, in attesa di un crescendo, sia del bilancio di vittime degli oltre 30 morti e 230 feriti, sia del timore di essere di fronte ad una paralisi indotta da misure di sicurezza sempre più stringenti.
La rivendicazione è dell’Is. Il teatro privilegiato dei terroristi: aeroporto, quello di Zaventem, ed il metro, quello di Maalbeek, vicinissimo alla Commissione UE, anche questi sempre più simboli della nostra vita dinamica, addirittura frenetica, emblema di uno sviluppo che ci obbliga ad andare sempre più avanti e sempre più veloci.
Le notizie, al momento in cui scriviamo, sono scarse. Ricordiamo l’esperienza precedente, quando la polizia belga aveva imposto il blocco delle informazioni per evitarne il filtraggio a vantaggio dei terroristi fuggiti.
Ci troviamo in analoga situazione. Sono attualmente ricercati cinque individui.
Le prime dichiarazioni riportate dalla stampa sono state rilasciate da Hollande, che ripete ossessivamente che siamo in guerra, e da Renzi, che invoca una struttura unitaria di sicurezza e di difesa.
Sarebbe molto utile, al momento, mostrare il sangue freddo di cui disponiamo e ragionare in termini più allargati.
Il copione del terrore sul fronte West Africa, per esempio, è stato abbondantemente replicato anche lo scorso 16 marzo: la località, Umarari, una periferia di Maiduguri, capitale del Borno State, Nigeria; l’obiettivo, una moschea, luogo di culto; le modalità, due donne kamikaze, la scelta delle vittime, persone in preghiera.
La stampa locale, in molti casi, nel riferire il messaggio di cordoglio del presidente nigeriano Mohammadu Buhari, non ha potuto fare a meno di ricordare la sua dichiarazione del dicembre scorso con cui proclamò “tecnicamente sconfitta” la setta Boko Haram, che, invece, continua a dimostrarsi tristemente vitale.
Ci dobbiamo riportare anche al terrorismo esistente in un lembo dell’Africa fisicamente lontano, anche se siamo indotti a ritenerlo lontano anche come problema. Ma così non è, soprattutto se pensiamo alla distribuzione delle “agenzie del terrore” che operano intorno e a ridosso della Libia, che, invece è vicina e costituisce un grosso problema.
L’espansione che l’Is, o Daesh che dir si voglia, ha realizzato spostando parte delle sue bande dalla Siria verso la Libia, attraverso l’Egitto, può essere considerata sia in chiave offensiva, come avvicinamento strategico all’Europa, considerando il breve spazio di mare che separa la Libia dall’Italia, sia in chiave difensiva, soprattutto dopo le battute di arresto subite nel conflitto sirio iracheno, che suggeriscono la ricerca di una via di fuga delle bande islamiche dai territori siriani, per mettere in salvo l’esercito del terrore.
Una rapida occhiata alla geografia del terrore in quella parte di Africa ai confini sia ai lati che al sud della Libia, ci consiglia di soffermare l’attenzione non solo a est, ai confini con l’Egitto, attivo nel sostenere le milizie libiche che bocciano i tentativi di riconoscimento del governo proposto dall’ONU ancora “in esilio”, ma anche ad ovest ed a sud. Ad ovest la Tunisia è stata già oggetto di ripetuti sanguinosi assalti, miranti a destabilizzarla colpendo la risorsa più importante, quella del turismo, e l’Algeria, dove opera al Qaida nel Maghreb Islamico. A questa organizzazione viene attribuito un occhio di riguardo verso i fratelli mussulmani che opererebbero in modo più “democratico” (ma sembra lecito dubitarlo) di quanto abbiano fatto i loro cugini in Egitto sotto la guida dell’ex presidente Morsi.
Guardando a sud della Libia è facile scoprire un’area di forte instabilità nei paesi limitrofi a cominciare dal Mali per finire al Niger, quest’ultimo ricco di uranio, risorsa molto utile per finanziare le formazioni del terrore, peraltro oggetto di numerosi assalti da parte di Boko Haram, in particolare a Diffa, ai confini con la Nigeria.
Trascuriamo, ma solo per esigenza di brevità, le notizie sul terrore che si annida sul versante centro orientale dell’Africa e che opera con modalità analoghe a quelle prima descritte e chiediamoci cosa sarebbe possibile fare per arginare una espansione di quel terrorismo che con epicentro in Libia potrebbe puntare all’Europa con approdo in Italia.
Cerchiamo, quindi, di comprendere come operare per ridurre le ragioni dei conflitti in atto, o per eliminarle.
In primo luogo il soggetto: chi dovrebbe operare per ridurne le ragioni? E perché?
Sarebbe interesse dei paesi più direttamente minacciati operare in quella direzione e cercare di ottenere sostegno e solidarietà da paesi alleati. Ma la politica estera della UE è purtroppo limitata dall’assenza di un qualsiasi livello di sovranità nazionale in capo alla UE e dalla politica di gran parte dei paesi che la costituiscono che, anche in base all’esperienza maturata fin dall’operazione Mare Nostrum, preferiscono la politica “del cerino acceso”, soprattutto se non sono direttamente ed immediatamente interessati.
Questo comporta che ciascun paese debba operare per proprio conto e riferirsi ai vincoli già esistenti derivanti dagli impegni internazionali assunti in ambito ONU.
A tale proposito giova ricordare la sferzante opinione espressa da Barack Obama sui leader dei paesi alleati, Cameron e Sarkosy in primo luogo, definiti alleati USA scrocconi. Né sembra che il consenso politico di cui gode attualmente il successore di Sarkosy, François Hollande, sia molto diverso da quello del suo predecessore.
Che fare, dunque?
Certamente l’ancoraggio più solido dell’Italia sembra quello dell’ONU, in particolare quello secondo cui qualsiasi intervento armato in Libia debba essere richiesto da un governo rappresentativo e riconosciuto dalle organizzazioni internazionali. Un altro ancoraggio robusto appare quello offerto da un alleato disposto a rischiare su obiettivi coerenti con la propria politica estera, come gli Stati Uniti. E questo sembra essere confermato dall’intensificarsi della sua strategia verso i paesi del West Africa, secondo le notizie pubblicate dal New York Times sull’affiancamento da parte americana della Task Force costituita dai reparti di Camerun, Ciad e Niger, benedetti a suo tempo dall’Unione Africana. Come pure sembra essere confermato il sostegno USA ad una guida italiana della missione militare in Libia offerto dal Segretario alla difesa USA, Ash Carter nelle sue recenti missioni europee.
Alla strategia di politica estera adottata dall’Italia, utile per interlocuzioni bilaterali redditizie, bisogna certamente ascrivere la ripresa degli incontri italiani ad alto livello con i leader dei paesi africani, prima con Renzi che dall’inizio del suo mandato era andato a sud in Angola, Mozambico e Congo Brazzaville, l’anno scorso ad est in Kenya ed Etiopia, e quest’anno ad occidente in Nigeria, Ghana e Senegal, poi seguito subito a ruota da Mattarella, in Etiopia e Camerun.
La ripresa di programmi di cooperazione tra l’Italia ed i paesi africani visitati costituisce un importante pilastro della nostra politica estera che ci auguriamo possa proseguire e concretizzare iniziative di sostegno economico e sociale a cominciare da quei paesi strategicamente importanti.
Contribuire a ricreare condizioni di vivibilità e di autosufficienza economica, sociale e culturale, in paesi oggi ridotti a produttori ed esportatori di migranti ci riporta, tra l’altro, alla nostra reale dimensione umana.
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::autore_::di Giorgio Castore::/autore_:: ::cck::1155::/cck::