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Le diatribe governative sui dati inerenti l’economia italiana diventano sempre più importanti, tanto da scomodare i dati dell’Istat, in vista del Referendum Costituzionale del prossimo 4 dicembre.
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Tra tutte le notizie che i media ci rappresentano, le diatribe governative sui dati tendenziali per l’economia italiana hanno sempre più maggior risalto, tanto da scomodare i vari criteri di redazione dell’Istat, in contrapposizione ai dati provenienti da altre autorevoli fonti, come se la divergenza decimale di una crescita del Pil allo 0,8, fosse il metro universale di giudizio di una classe governativa e dirigente in un paese che ha perso negli ultimi dieci anni il 25% di produzione industriale, raddoppiato la disoccupazione e visto erodere un quarto del risparmio privato.
In attesa del via libera dall’Europa sulla manovra finanziaria che consentirà all’Italia di arrivare al 2,4% di deficit, l’attenzione è focalizzata sull’assetto costituzionale e sulla legge elettorale, con il referendum indetto per dicembre prossimo.
I dati che arrivano dalla grande distribuzione mostrano una tendenza continua di riduzione dei consumi, con la conseguente probabilità di avere un trimestre negativo del Pil e un rientro nella spirale tecnica della recessione, proprio in prossimità dell’evento referendario.
Nel mentre di una crisi di domanda (ossia dei consumi) se i dati mostrano un’ulteriore contrazione, la figura più allegorica è che il cammello è entrato nel deserto ed ha terminato le riserve d’acqua.
Dal 2011 ad oggi, il nostro paese ha osservato tutte le indicazioni che arrivavano da Bruxelles e, se l’evidenza dei dati e dei fatti mostra il fallimento completo di tutti gli indicatori economici, resta la curiosità di capire il motivo dell’accorato appello dei giorni scorsi del commissario Moscovici, che si schiera sul risultato referendario e sull’esito di possibili risultati democratici di un paese membro.
Il bicameralismo perfetto e gli assetti istituzionali non hanno di certo impedito di osservare l’agenda dettata da Barroso e seguita dai governi italiani nello scorso quinquennio.
Forse l’attesa di un lungo periodo di mancata crescita (stagflazione) pone le autorità nel bisogno di limitare la rappresentatività democratica, per impedire l’insorgere di movimenti anti euro e di populismi, che si diffondono sempre di più in tutti i paesi europei.
Le voci della possibile sostituzione del premier Renzi, in caso di esito negativo del referendum, con un governo di tecnici capeggiato dall’ex primo ministro Monti, delineano un piano programmatico di oltranza alle reazioni dei cittadini che chiedono il rispetto della Costituzione in termini di occupazione, stato sociale e maggiore equità sociale.
La teoria delle AVO, aree valutarie ottimali, in economia, è già stata studiata, teorizzata ed empiricamente analizzata, e l’inosservanza di tutte le regole fondamentali per evitare gli squilibri che la moneta unica avrebbe portato ci getta in una fase di distruzione di un paese che, dal dopoguerra agli anni ‘90, era diventato il settimo paese industrializzato e il secondo paese per risparmio privato al mondo.
L’ultimo “niet” del presidente Junker all’ipotesi di una confederazione europea lascia il quesito fondamentale e più importante: l’euro salterà, ma quando?
La transizione di quella fase sarà ancora più delicata se governata da dilettanti e da interessi di parte.
Se ci sono 62 persone al mondo che controllano il 50% della ricchezza del pianeta, a differenza di dieci anni fa, si capisce chi c’è dietro le decisioni e gli assetti dei leader mondiali.
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::autore_::di Gianluca Di Russo::/autore_:: ::cck::1578::/cck::