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Guerra e cibo: sinonimo di fame

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Bambini affamati durante la Guerra. Foto di Janeb13, attraverso Pixabay, dominio pubblico.
In un’epoca come la nostra, caratterizzata da un controllo maniacale per l’alimentazione, viene spontaneo domandarsi: “Ma durante la guerra esistevano delle norme alimentari?”

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Diceva un  medico, a proposito delle cure dimagranti e dei vari problemi nutrizionali: “Si parla sempre di diete e di cibo solo quando siamo ben sazi, cambia tutto quando siamo in uno stato di necessità, come, ad esempio, durante un periodo di guerra”.
Questa frase mi è tornata alla mente rileggendo in questi giorni i Diari della Prima Guerra mondiale (proprio quest’anno ricorre il centunesimo anno dall’entrata nel conflitto dell’Italia).
Una tragedia che ci costò il triplo dei morti della seconda guerra ed una situazione di una grave carestia che ha lasciato il segno per molte generazioni.
Ciò che mi ha colpito, al di là dell’eroismo, delle battaglie e della vita di trincea, è la vita quotidiana dietro al fronte. Quella che si svolgeva nelle città o nelle campagne tra disagi di ogni tipo, primo tra tutti quello alimentare.
Altro che diete, controllo delle calorie, visite dal nutrizionista e quant’altro; la militarizzazione dei territori causò devastazioni ai raccolti e lo svuotamento dei depositi agricoli con il risultato di una grave miseria, specialmente per le popolazioni vicino ai campi di battaglia che furono le prime vittime di malattie anche gravi dovute a carenze alimentari come la pellagra, il tifo o il rachitismo, entrati di forza nella vita quotidiana.
Gli italiani pagarono, dunque, un prezzo drammatico con un aumento della mortalità, specialmente infantile, man mano che la razione giornaliera di cibo scendeva al di sotto dei livelli di sicurezza.
Le direttive alimentari, già all’inizio del secolo, consigliavano un’alimentazione equilibrata per una vita più sana, per giusto apporto nutrizionale dalle proteine agli zuccheri, dai grassi animali a quelli vegetali, con la raccomandazione di limitare i consumi di lusso come dolciumi o alcolici.
Così anche il burro, lo zucchero, la carne, insieme al latte e alle uova, cominciarono a scarseggiare sugli scaffali divenendo ben presto merce rara e chi poteva, per sopravvivere, ricorreva persino alle erbe selvatiche, alle foglie degli alberi, a farine ricavate dai gusci secchi dei fagioli o dai torsoli delle pannocchie del granoturco.
Difficilmente sulla tavola si poteva mettere insieme il pranzo con la cena. Un caso a parte merita in questo contesto l’approvvigionamento del pane.
Diciamo subito che una disorganizzata politica di rifornimento di questo cibo base per eccellenza creò gravi problemi politici non solo tra i banchi del Parlamento, ma anche nelle piazze con violente rivolte popolari.
Essendo un prodotto base e anche un calmiere sociale, si rivalsero su di esso le maggiori misure di controllo imponendo, tra l’altro, ai fornai, un solo tipo di pane: il “pane di guerra”, conosciuto anche come pane nero dal sapore spesso disgustoso e poco digeribile.
Un simbolo entrato ben presto nell’immaginario collettivo come difficoltà alimentare di un Paese in guerra.
Se la malnutrizione diventava ormai un fatto endemico per la nazione, figuriamoci poi con una economia di guerra ormai ridotta all’osso.
Bisognava certamente dare delle priorità al fabbisogno alimentare iniziando dall’esercito al fronte per arrivare ai lavoratori con mansioni dure e di utilità per lo sforzo bellico. Per i cittadini come artigiani, commercianti, ma soprattutto gli impiegati che vivevano di solo stipendio, la situazione era a dir poco difficile, ne fanno fede articoli o lettere ai giornali dell’epoca.
Per loro era impossibile, oltre a quello abbondantemente razionato, accedere al cibo fuori dal controllo statale che ormai aveva raggiunto aumenti vertiginosi dei prezzi, causando per la legge del contrappasso un consistente calo nei consumi anche primari.
Il mangiare sano era diventato ormai una pura chimera, creando situazioni sempre più difficili sia economiche che sociali.
Davanti alla fame, il governo non esitava a rasentare a volte anche il ridicolo, suggerendo di ridurre in modo accorto le quantità dei viveri con la riduzione del superfluo nell’alimentazione.
Ognuno, diceva la propaganda, si sarebbe sentito più vivo nell’appetito, “il miglior segno di benessere e di salute, infatti, è l’ indizio sicuro dello stomaco sano”.
Si invitava così al ritorno alla terra, ad intensificare la produzione dell’economia rurale, a sviluppare la produzione della frutta, ad incrementare la coltivazione dei cereali, dei legumi e delle verdure per provvedere così anche al benessere della nazione.
Ricordiamo, però, che non mancava solo il cibo, ma anche i mezzi per cuocerlo come il carbone, la legna e in mancanza del quale leggiamo in un libretto dell’epoca “Alimentazione durante la guerra“, le seguenti raccomandazioni già alla prima pagina: “Limitiamo dunque l’accensione delle cucine ad una sola volta al giorno, cucinando alla mattina quello che occorre alla sera, mantenendo nelle cassette termiche gli alimenti caldi per secondo pasto. Diffondiamo l’uso delle cassette di legno o di cartone ripiene di segatura polvere di sughero, fieno, trucioli che conservano il calore, per parecchio tempo, ad una temperatura di circa 90 gradi sufficiente a completare la cottura degli alimenti. Le pentole possono essere di terra cotta, ferro smaltato, rame, ecc. condizione principale che abbiano una perfetta chiusura. Sopra le pentole, infine, si dispone un cuscino ripieno degli stessi materiali (segatura, fieno, ecc.), quindi si chiude la cassetta con il suo coperchio”.
Il libretto, conservato presso la Biblioteca Statale di Torino, è tutto un panegirico alla frugalità ed essenzialità del cibo, senza sprechi e senza spese voluttuarie come se ci si poteva permettere questa scelta.
Se la guerra in trincea fu tragica, oltre ai 600 mila morti, un milione e mezzo di mutilati, ci fu anche una guerra silenziosa, ma non per questo meno drammatica.
Alla fine della guerra bisognò far fronte ad oltre due milioni di malati per cause di malnutrizione, una ferita che l’Italia si porterà per decenni.
Tutto ciò sembra ormai relegato alla storia lontana ma in realtà anche noi supertecnologici corriamo il rischio di carestia, non solo con le guerre sempre più numerose, ma per il cambiamento climatico per il quale fra non molto dovremo rivedere la nostra qualità e quantità alimentare.

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::autore_::di Antonello Cannarozzo::/autore_:: ::cck::1614::/cck::

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