L’opinione di ognuno sul referendum costituzionale, sulla scelta del premier di farsene promotore (la legge contempla più che altro l’ipotesi di una richiesta da parte di chi non è a favore di una legge e ne chiede la prova del voto popolare), su quanti contestano sia il testo di legge sia il premier sino a modificare sostanzialmente il senso del voto, non confermativo del testo e dell’impianto che ne deriva ma test contro il presidente del consiglio, avrà tra una decina di giorni quella che si definisce la sanzione popolare.
L’opinione di ognuno sul referendum costituzionale, sulla scelta del premier di farsene promotore (la legge contempla più che altro l’ipotesi di una richiesta da parte di chi non è a favore di una legge e ne chiede la prova del voto popolare), su quanti contestano sia il testo di legge sia il premier sino a modificare sostanzialmente il senso del voto, non confermativo del testo e dell’impianto che ne deriva ma test contro il presidente del consiglio, avrà tra una decina di giorni quella che si definisce la sanzione popolare. I cittadini si esprimeranno sulle ragioni e sui torti degli uni e degli altri, sulla bontà di un tentativo di avviare la riforma più generale del sistema paese e sui dubbi di quanti paventano sfracelli come sua conseguenza!
Quel che appare sempre più chiaro, però, mentre i toni salgono di decibel e le affermazioni toccano livelli inauditi e sia detto per inciso “sconci” per un appuntamento di democrazia, è proprio sullo strumento del referendum che occorre fare qualche riflessione!
Strumento basilare ancorché estremo di un sistema democratico dove la politica pone ai cittadini la domanda su qualcosa che essa non è stata in condizioni di districare e di risolvere, elemento distintivo di una democrazia matura, di un modo di intenderla che dà l’ultima parola al popolo o quanto meno ad esso pone un interrogativo dirimente, oggi ci si manifesta come qualcosa di profondamente diverso ed antitetico da quel che dovrebbe essere.
E’, del resto, il punto di arrivo di un uso che di esso si è fatto per decenni, volto ad ottenere per via popolare quello che parlamento e governo non erano in grado di produrre. Solo che da temi come il divorzio ad esempio o diritti civili di varia natura, con il passare degli anni si è arrivati ad un uso qualsivoglia, senza l’esatta concezione di che cosa esso sia e a che cosa serva!
Il testo della legge istitutiva del 1970, esplicativa del diritto riconosciuto dalla Costituzione di esprimersi su ogni genere di temi di temi di pubblico interesse (o presumibile come tale), tranne che sulla forma costituzionale della repubblica, è figlio dei tempi in cui è stata varata. Dopo il boom il paese si avvitava nella prima di quelle crisi sistemiche che ciclicamente (per fattori endogeni od esogeni) ne hanno segnalato la vita in questi decenni. Gravi vicende come quelle che sfociarono nella stagione del terrorismo, posero con chiarezza la necessità di svecchiare, svelenire il sistema. Solo che la scelta venne fatta con grande enfasi sul valore della volontà popolare, ma senza tenere conto dei ritardi ancora forti nel paese proprio in tema di evoluzione democratica. Di qui la divaricazione sempre più forte nel suo impiego, favorita anche dal sistema politico congelato di allora, che ne ha piegato e forgiato l’utilizzo in direzioni spesso antisistema, quasi a farlo divenire uno strumento per scardinarlo.
In mezzo a questa tenaglia il paese con le sue contraddizioni, le sue difficoltà, le pagine buie, i ritardi colpevoli sia del sistema politico ed imprenditoriale sia della rappresentanza sindacale. E l’esplosione di questa miscela micidiale e pericolosa.
Superata prima la strategia della tensione e poi la stagione del terrorismo, con qualche contrazione delle libertà individuali ma salvando fortunatamente la tenuta della democrazia e delle sue istituzioni, è arrivata la stagione della conflittualità tout court dove troppo spesso si è imboccata la via del referendum. Così, come per il voto politico, anche per quello referendario si è andata manifestando una disattenzione e una disaffezione dal voto sempre più considerato inutile per l’incomprensibilità dei quesiti, per la distanza dei temi da votare rispetto ai problemi reali e per la sensazione di una sostanziale inutilità del ricorso a questo strumento.
Ecco, dunque, quale scenario vede realizzarsi l’ennesimo ricorso al referendum. Solo che al centro del quesito che – malgrado decine di ricorsi – ha superato le obiezioni di costituzionalità e legittimità e di comprensibilità, c’è il cuore del nostro sistema di governo e di rappresentanza parlamentare. Un nodo del quale gli italiani si rendono ben conto malgrado il clamore eccessivo su aspetti parziali, personalistici, inutili alla domanda cui rispondere ma utilissimi a far vivere ancora forze politiche condannate dalla storia o aspiranti stregoni del dopo!
Nessuno, però, degli attori di questo teatro dell’assurdo ha spiegato realmente i contenuti della riforma, tutti presi nei loro interessi di bottega o di sopravvivenza. Gli ultimi eccessi che hanno coinvolto quanti serenamente e consapevolmente voteranno sì (definiti assassini dei loro figli dal leader dei cinque stelle) confermano questa deriva insensata e soprattutto mettono a rischio la stessa partecipazione al voto di milioni di connazionali tentati dal fare spallucce come dinanzi a liti di bottega. Una responsabilità gravissima dalla quale evidentemente ci si aspetta un voto pesante antisistema, di protesta fine a se stessa. Tutto tranne la risposta al quesito sulla scheda.
Mai, in passato, si era arrivati ad un livello così basso e assurdo di confronto politico. Anche se è utile rammentare lo spettacolo non molto dignitoso dell’attuale parlamento al momento della rielezione del presidente emerito Napolitano e gli applausi pressoché unanimi alle sue parole mentre li tacciava di irresponsabilità e li esortava duramente ad aprire una stagione di riforme necessaria ed inevitabile per il paese. Guardando a quel giorno, la deriva è stata senza ostacoli in senso opposto tranne il tentativo del premier di abbozzare e far comunque passare un testo di riforma in ossequio all’impegno per il quale è andato a palazzo Chigi. Forse con troppa foga e con troppo spirito dirigista tanto da saltare alcuni momenti di confronto.
Ora siamo al redde rationem per il sì o per il no. Al referendum, dunque. Già… il referendum: era una cosa seria!
di Roberto Mostarda