::cck::1687::/cck::
::introtext::
Roberto Savio parla della crisi del giornalismo che impoverisce l’informazione. Il paradosso è che la quantità delle informazioni nell’era internet aumenta sempre di più, il problema è la qualità.
::/introtext::
::fulltext::
Lo scorso 21 novembre Roberto Savio, in viaggio in Sudamerica, ha rilasciato un’intervista alla testata EN PERSPECTIVA di Montevideo, affrontando numerosi argomenti.
Ne pubblichiamo una parte e ci diamo appuntamento al prossimo numero di “italiani” per la pubblicazione della seconda parte, ringraziando per la disponibilità, sia dell’intervistatore, Emiliano Cotelo, sia dell’intervistato.
Emiliano Cotelo (EC). Cambiamenti climatici, governance globale, sviluppo, globalizzazione…
I mezzi di comunicazione di massa, che fissano l’ordine del giorno delle notizie in tutto il mondo, hanno messo da parte le questioni importanti di cui il pubblico dovrebbe essere a conoscenza?
Roberto Savio, economista, giornalista e analista politico, ha dedicato gran parte della sua vita a promuovere questo dibattito ed ha anche fondato e diretto agenzie alternative come Inter Press Service (IPS) o il portale Other News.
La discussione ha un rinnovato interesse in questo anno 2016, che ci ha sorpreso per alcuni fatti molto scioccanti sulla scena internazionale.
Così, approfittando del fatto che Roberto Savio è in questi giorni a Montevideo, lo abbiamo invitato a visitare lo studio di En Perspectiva.
Come ho detto di recente, Roberto, hai guidato negli anni ’60 la fondazione di IPS e più recentemente Other News (Altre notizie). Che cosa hanno in comune queste due iniziative?
ROBERTO SAVIO (RS) Hanno in comune il fatto che la gente sappia che cosa sta accadendo nel mondo. Ecco, un drammatico declino delle informazioni. Per esempio, io venivo in Uruguay negli anni ’60 e oggi trovo nei quotidiani un declino molto consistente. Questo non avviene solo in Uruguay, è così dovunque, perché ci sono tre fenomeni simultanei.
Uno, il mondo è sempre più complesso. “Coprire” tutte le informazioni costa, quindi il modo più semplice è di non parlarne e dare notizia solo degli eventi del mondo, lasciando da parte le analisi, che costano di più perché coinvolgono il giornalista molto capace. In effetti i giornali di oggi hanno una copertura internazionale minima che consente a un cittadino di sapere che cosa sta succedendo nel mondo. E disporre di informazioni che questo accade qui e quello accade là, ma senza collegarlo in una lettura organica che il lettore non è in grado di elaborare e quindi di capire cosa sta succedendo nel mondo. E così un lettore che non è molto a conoscenza di tutto non può guardare il mondo in cui vive, non è un cittadino in grado di esercitare la democrazia, per sviluppare la sua personalità. Primo fenomeno: c’è un calo di informazioni e una riduzione della capacità dei cittadini di partecipare in una democrazia nel vero senso della parola.
In secondo luogo, i giornali sono sempre più in crisi, perché non sono più strumenti economici nel senso di impresa.
EC – In ogni caso, c’è l’alternativa internet, i portali di internet. Il quotidiano su carta che possa avere problemi con la sua distribuzione classica utilizza l’altro canale.
RS – Sì, ma quando si utilizza l’altro canale è necessario ricorrere a spazi e tempi diversi. Nella versione digitale dei quotidiani le notizie sono sempre più brevi e c’è meno analisi, perché non è il formato Internet. Con questo hai uno spazio diverso, un tempo diverso.
Secondo fenomeno: a causa della crisi economica dei quotidiani vi è una capacità ridotta dei giornalisti. Oggi per avere su un quotidiano una analisi giornaliera devi avere giornalisti di un certo livello, mentre per avere una semplice copertura è sufficiente ricorrere a persone meno qualificate. Vedo il problema dal punto di vista professionale, quando sono diventato giornalista i miei articoli sono stati pagati almeno 10 volte di più di quello che sono pagati oggi. E c’è una crisi nella professione in quanto tale. Oggi essere giornalista non significa avere un livello di remunerazione come era prima.
EC – Manca il terzo fattore.
RS – Il terzo fattore, che è molto importante, è il fatto che i giornali stanno omogeneizzandosi, si perdono le differenze tra loro. Non tanto a livello nazionale, ma a livello internazionale è drammatico, perché non c’è una possibilità di leggere il mondo in modo diverso. Questo sta creando un cittadino sempre meno informato, e quindi sempre meno attivo e in campo internazionale questo è molto più esagerato che in ambito nazionale. Risultato: oggi arriva Trump e la gente dice “Uh, che cosa straordinaria!”. Ma Trump non nasce come un fenomeno improvviso, ma è il risultato di un lungo processo che porta alla Brexit, conduce a Trump e all’intera ondata di partiti populisti e nazionalisti che c’è ora, che porta alla fine del multilateralismo, cioè a relazioni internazionali intese come un tutto organico che può funzionare sulla base di valori comuni. C’è una crisi che non nasce all’improvviso, è iniziata molto tempo fa.
EC – E’ un buon esempio per spiegare le tue inquietudini su come funziona l’informazione internazionale o, meglio, l’analisi degli sviluppi internazionali oggi sui mezzi di comunicazione. Prendiamo per base il trionfo di Trump negli Stati Uniti. In quale contesto si colloca? Avevi con te alcuni appunti. Cosa c’è dietro Trump?
RS – Molto semplicemente, dopo la caduta del muro di Berlino -per inserire una data qualsiasi- nel 1989, si è sviluppato un processo di globalizzazione così forte e così indiscutibile che in realtà ha cambiato le regole dell’economia, delle relazioni internazionali e di tutto. Nessuno ha capito che guardando l’economia in termini macroeconomici, guardando la crescita del prodotto interno lordo senza vedere come questa crescita si è distribuita significa che tutti sono felici per la crescita globale, ma non si rendono conto che in questa realtà di mercato del lavoro sconvolto e di realtà della vita, molte persone sono piene di risentimento, subiscono una grave frustrazione e si nasconde in fenomeni come Trump perché sperano che ritorni un nuovo mondo di ieri come quello in cui si trovavano; vogliono lasciare il mondo di oggi quello in cui stanno.
EC – Non fermarti: questo avviene in conseguenza del fatto che questo processo di globalizzazione ha avuto all’interno degli stessi Stati Uniti, un paese che è stato uno dei motori della globalizzazione.
RS — Se fai qualche ricerca su tempi anteriori al 1989, il termine globalizzazione non appare da nessuna parte. Si tratta di un nome inesistente nella stampa. Appare negli Stati Uniti perché era il paese più forte in quel momento. Caduta del muro di Berlino, scomparsa del socialismo, [Francesco] Fukuyama scrive La fine della storia, perché non c’era più dibattito politico, il mondo si avviava ad essere uno solo. Mi ricordo che in una conferenza a Milano [Renato] Ruggero, che era il direttore dell’Organizzazione mondiale del commercio, disse: “Oggi il mondo è ancora diviso in gruppi, per esempio, l’Unione Europea, che è una fortezza. In un tempo molto breve tutti i muri cadranno, non ci saranno più confini, ci sarà una moneta unica mondiale, e arriveremo alla fine delle guerre e la ricchezza prodotta dalla globalizzazione arriverà a tutti i cittadini del mondo”.
È stato esattamente il contrario. La globalizzazione è una ideologia basata sul mercato, in cui l’unica cosa che conterà sarà il mercato stesso. Tutte le spese non produttive – come quelle per l’istruzione, la salute, le spese sociali – dovranno essere tagliate drasticamente perché il bilancio dello Stato sarà destinato solo alla crescita economica. E la crescita economica c’è stata, siamo cresciuti in media del 3% a livello mondiale tra il 1989 e il 2004, poi è cominciata a stagnazione. E ora abbiamo una riduzione del commercio mondiale e una situazione molto grave nel campo della crescita economica.
In questa epoca tutti guardano le statistiche globali, ma nessuno vede com questa crescita è stata distribuita. Oggi abbiamo tutti i dati. Posso darti un dato per “divertimento”: nel 2004, 388 persone avevano la stessa ricchezza di 2 miliardi e 100 milioni di persone, e oggi quelle persone non sono più 388, ma solo 88. La ricchezza si concentra in modo sempre più drammatico, e questo non accade perché i ricchi che concentrano su di sé la ricchezza stampino moneta per sé in particolare, la moneta con cui diventano ricchi proviene dalla circolazione nel mercato. Ciò significa che la classe media si abbassa, e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro dice che anche oggi il lavoratore medio sta guadagnando il 16% in meno rispetto a prima della crisi del 2009. In Europa si sono persi 14 milioni di posti di lavoro della classe media, negli Stati Uniti 24 milioni.
Questa concentrazione di ricchezza, che significa che ci sono persone sempre più ricche e persone sempre più povere, sta restringendo la classe media. E che questa classe media, quando arriva il momento di votare non si sente rappresentata dal sistema, come anche i giovani, che non trovano posto nel mondo del lavoro. Tutte quelle persone tornano di nuovo in politica, dalla quale si sono sentiti esclusi, quando appare un personaggio straordinario, in grado di organizzarla, che dice: “Io cambierò, tornerò a fare grande l’America”, “torneremo a rendere l’Inghilterra la potenza internazionale che era una volta e che è stata annullata dalla partecipazione nell’Unione europea”.
(continua nel prossimo numero di “italiani”)
::/fulltext::
::autore_::di Emiliano Cotelo::/autore_:: ::cck::1687::/cck::