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Alla globalizzazione fuori controllo dobbiamo lo stato di malessere sociale che si espande nel mondo, salvando da un lato le banche e precipitando nell’indigenza fasce sempre più ampie della popolazione.
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Lo scorso 21 novembre Roberto Savio, in viaggio in Sudamerica, ha rilasciato un’intervista alla testata En Perspectiva di Montevideo, affrontando numerosi argomenti.
Dopo “Giornalismo oggi”, titolo della prima parte dell’intervista, oggi 7 dicembre ne pubblichiamo la seconda parte, focalizzata sull’economia della globalizzazione.
Ringraziamo per la loro disponibilità, sia l’intervistatore, Emiliano Cotelo, sia l’intervistato.
A conclusione della prima parte dell’intervista irrompe Donald Trump sul gradino più alto della scena politica statunitense e dell’intervista.
Emiliano Cotelo (EC) – Stai associando direttamente il trionfo di Trump negli Stati Uniti col trionfo della Brexit nel Regno Unito?
Roberto Savio (RS) – E’ esattamente lo stesso fenomeno. Ed è esattamente lo stesso fenomeno che porta in Francia a [Marine] Le Pen, a Geert Wilders in Olanda, e a [Nigel] Farange in Inghilterra. Ora c’è un’ondata di elezioni che premierà i partiti con i quali si sentono rappresentate le persone che sono state escluse dal sistema. Queste persone che sono state escluse sono molto più numerose di quanto si pensava e sono molto arrabbiate, sentono di aver lavorato tutta la vita e improvvisamente hanno perso il lavoro perché la fabbrica è stata spostata, delocalizzata.
EC – E’ un fenomeno molto curioso, perché provoca una resistenza anti-globalizzazione guidata da movimenti politici o leader dal centro alla destra proprio sullo spettro ideologico di ciascuna delle parti dell’emisfero settentrionale che adottano argomenti simili a quelli che per molti anni in questa altra parte del mondo, nel sud, avevano brandito settori di sinistra.
RS – E’ chiaro, perché i due emisferi sono partiti da realtà diverse. Qui il mondo, in generale in Africa, Asia e America Latina, ha utilizzato la globalizzazione per crescere, e chi ha inventato la globalizzazione nel primo periodo la dominava. Ma al momento di entrare in un gioco simile, la Cina inesorabilmente comincia a crescere molto più che l’Olanda o la Spagna. Quindi, in questo processo di crescita oggi abbiamo che i paesi industrializzati di rimbalzo, per effetto boomerang, sono in crisi, e i paesi del Terzo Mondo sono più in crescita.
Ma ancora una volta abbiamo lo stesso fenomeno, come si distribuisce questa crescita. Oggi abbiamo tutti i dati, in Africa, Asia ed in America Latina anche, è stata distribuita con una concentrazione di ricchezza che ha fatto sì che in Cina, per esempio, ci siano oggi 1.958 miliardari. Questo, in un paese che si suppone faccia del socialismo la base ideologica o strategica della sua economia nazionale, sta creando problemi sociali. In Cina ci sono 3.000 scioperi all’anno di persone che rivendicano più dignità e maggiore partecipazione.
EC – Hai scritto in un articolo sul tema del fenomeno Trump, dopo il trionfo di quel candidato negli Stati Uniti, che Trump è “un politico imprevedibile”, ma la sua elezione a presidente potrebbe significare una “opportunità”. A cosa alludi? Approfondiamo questa idea.
RS – E’ molto semplice. Siamo abituati ad avere gli Stati Uniti come leader mondiale sia pure con graduazioni differenti. L’Europa ha vissuto tranquillamente tutto questo tempo spendendo poco sul bilancio della difesa e dando per scontato che gli Stati Uniti sono i responsabili per la difesa.
EC – Ora Trump dice “Non lo so, ma penso che non rimarremo a farci carico della difesa dell’Europa.”
RS – Questo crea due problemi in Europa. In primo luogo, l’Europa deve decidere se avere una propria politica estera o meno, perché finora non ne ha avuta. Non solo perché sono 28 paesi, ma perché il cittadino europeo ha due cappelli, quello del cittadino europeo, di un progetto politico di integrazione, di cooperazione, un progetto politico positivo; e quello di cittadino della NATO [Organizzazione del Trattato Nord Atlantico] che è l’opposto, un sistema difensivo-offensivo di tipo militare. Questa schizofrenia europea è importante, fa sì che l’Europa non abbia una propria politica perché si sente psicologicamente parte di un sistema in cui gli Stati Uniti si preoccupano della sicurezza.
Ora Trump dice “questo è finito, o pagano o io non continuerò a pagare per la loro difesa” e ha messo l’Europa di fronte a un dilemma che può essere positivo, secondo cui Trump non si preoccupa più che gli Stati Uniti garantiscano la sicurezza mondiale, in quanto per esempio, significa che Trump si preoccuperà di meno degli affari internazionali e lascerà più spazio per una maggiore cooperazione internazionale. Per dirla in breve, un Trump per quattro anni non mi preoccupa, mi terrorizza un Trump otto.
EC – Perché? Qual è la differenza?
RS – Perché in quattro anni Trump non sarà in grado di fare molte delle cose che vuole fare. Ad esempio, egli entra a Washington, una città che non ha nulla a che fare con lui, con una burocrazia che non ha nulla a che fare con lui, perché i burocrati hanno un reddito sicuro, non hanno nessuno dei drammi che hanno le persone che sono state delocalizzate all’interno del paese. Non sarà facile. Quando Lenin, venuto in Russia la trasformò in Unuine Sovietica – e sia chiaro che non c’è paragone tra Lenin e Trump – ha dovuto organizzare un sistema e la prima cosa che fece fu quella di chiedere a Trotsky di occuparsi dell’esercito, non perché Trotsky fosse un militare, ma perché era una persona sicura. E Trotsky creò la Ceka, che era uno strumento di informazione per vedere chi nella burocrazia era su una linea giusta e chi non lo era. Trump non può fare la Ceka non ha tempo sufficiente perché le sue idee si trasformino in performance, in azione.
EC – Ma tu hai l’aspettativa, suppongo, che con Trump e altri fenomeni simili in Europa, la globalizzazione entri in crisi.
RS – La globalizzazione è già oggi in crisi, è in crisi da un lungo tempo, per un semplice motivo: non ha dato ciò che aveva promesso.
EC – Ma ora c’è la possibilità che i governi dei paesi dell’emisfero settentrionale adottino misure di riforma, di modifica di questa globalizzazione.
RS – Sì, e questo è il problema, perché rischiamo di gettare via il bambino con l’acqua sporca. Una cosa è la globalizzazione, un disegno ben preciso di contenuti: realizzare un modello di mercato e di capitalismo senza controlli come modello di crescita incontrollata e di omogeneizzazione del mondo. Questa era la globalizzazione. Un’altra cosa è l’internazionalizzazione, in cui lavoriamo in un mondo interdipendente e quindi abbiamo regole comuni. Per questo dico che l’ultima volta che ci fu un tentativo di governabilità della globalizzazione è stato nel 1973, quando le Nazioni Unite approvarono all’unanimità l’idea di un mondo che cooperasse con regole di sviluppo denominate “nuovo ordine economico internazionale”. Nel 1981 l’arrivo di [Ronald] Reagan e [Margaret] Thatcher alla riunione di Cancun, dove i capi di Stato si incontrarono per implementare questo piano d’azione, significò la fine del multilateralismo. Cioè, la fine dell’idea di cooperazione internazionale.
Fine della seconda parte. L’intervista prosegue sul prossimo numero di www.italiani.net
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(*) Roberto Savio, economista, giornalista e analista politico, ha fondato e diretto agenzie di notizie alternative come Inter Press Service (IPS) o il portale Other News
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