Economia

15 anni di Euro: quale bilancio?

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Monete e banconote in euro. Foto di pubblico dominio
Era il 1° gennaio 2002 quando, all’uscita dal veglione di San Silvestro, molti italiani provarono l’ebbrezza dei tempi che cambiano, con il primo prelievo bancomat nella nuova divisa: l’euro.

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Era il 1° gennaio 2002 quando, all’uscita dal veglione di San Silvestro, molti italiani provarono l’ebbrezza dei tempi che cambiano, con il primo prelievo bancomat nella nuova divisa: l’euro.
Ricordo con piacere l’emozione di vedere per la prima volta una moneta che avrebbe cambiato le sorti e i tempi.
I primi momenti furono a dir poco comici: molte persone e massaie incontravano difficoltà nel rapportare i prezzi nel nuovo conio, difficoltà cavalcate da molti operatori disonesti che approfittarono dello scarso controllo per raddoppiare i prezzi all’istante.
A distanza di 15 anni, il dibattito si sposta sui cambiamenti sul paese e sulle condizioni di vita dei cittadini, con le differenze dei prezzi dell’energia, incrementati del 50%, al prezzo della benzina +45%.
Altri esempi li troviamo nel caffè mattutino, passato dalle 900 lire a 90 centesimi (+100%) per finire nella pizza margherita: da 6500 lire agli attuali 7,5 euro (+123%).
La convergenza verso l’euro era stata già pianificata con il trattato di Maastricht del 92, primo pilastro che caratterizzava un percorso politico economico europeo volto al liberismo e ai mercati, con la conseguente ondata di privatizzazioni, per snellire e rendere leggero, l’intervento dello Stato nell’economia e nel Welfare dei vari ordinamenti.
L’ascesa della Finanza mondiale, attraverso la liberalizzazione del movimento dei capitali, ha condizionato le scelte di politica economica dei vari governi e delle istituzioni europee, ampliando la divergenza dei paesi membri dinanzi alle avversità derivanti dalle tipiche distorsioni delle bolle speculative, come la crisi dei muti subprime del 2008.
In sostanza, i rigidi paradigmi liberisti hanno alimentato le differenze, con i ricchi che sono diventati sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri e i paesi più deboli sempre più in difficoltà.
La moneta unica e i cambi fissi, in assenza di meccanismi di riequilibrio, dai paesi che accumulano surplus verso i paesi in deficit, ha costretto i paesi a competere sull’unica leva rimasta: il lavoro ed il welfare.
Le riforme che ne sono derivate, in Francia ed in Italia, hanno caratterizzato il disfacimento delle conquiste sociali dal dopoguerra a oggi, con misure di austerità che hanno avuto effetti sempre più recessivi, con risultati in termini di disoccupazione e precarietà mai visti negli ultimi 40 anni e una perdita del tessuto industriale del 25% in soli dieci anni.
Le asimmetrie provocate da un sistema di cambi fissi erano state già provate dal tentativo italiano di adesione allo SME (serpente monetario europeo) del 1992, quando fummo costretti ad uscire e lasciare fluttuare i cambi, con il prelievo forzoso sui conti correnti dal governo Amato.
Gli studi di economisti di rilievo, quali Nicholas Kaldor e Joseph Stigllitz, descrivevano con ampio anticipo l’effetto che l’euro avrebbe avuto sui paesi più deboli, in assenza di meccanismi di compensazione degli squilibri.
Oggi ci viene chiesto se cedere maggiore sovranità e perseguire il diktat del più Europa, ma i timori sono dettati dai meccanismi e divergenze che i vari paesi esprimono, in un contesto di territorio privo di una lingua comune, tradizioni comuni, dove la diversità costituisce la ricchezza e la storia del mondo Occidentale.
Lo spostamento di 15 punti percentuali dal reddito dei lavoratori ai profitti ha a che fare con lo storico scontro tra capitale e lavoro: i dati ci dicono che l’euro è stato il veicolo ideale per rappresentare questo neo liberismo degli ultimi anni.
Nel caso di un disfacimento, la crescita diffusa dei populismi pone seri dubbi sul rischio di una transizione pilotata da forze reazionarie: la storia non si ripete mai, ma spesso usa la rima.

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::autore_::di Gianluca Di Russo::/autore_:: ::cck::1782::/cck::

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