Economia

Italia: anno zero

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foto di Geralt su pixabay
Leggendo delle statistiche sull’andamento dell’economia italiana, mi sono ricordato di un film di Rossellini, “Germania anno zero” e l’ho paragonato a ciò che ci ha lasciato il governo Renzi.

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Leggendo alcune statistiche sull’andamento dell’economia italiana, mi sono ricordato di un famoso film di Rossellini, “Germania anno zero“, che racconta la devastazione tedesca dopo la sconfitta dell’ultima guerra, e l’ho paragonato, in maniera meno cruenta, a ciò che ci ha lasciato il governo Renzi; un cumulo di macerie economiche con una politica raffazzonata, piena di annunci mirabolanti, senza però l’approvazione delle leggi e i conseguenti decreti attuativi.
Uno spreco di soldi in una situazione economica disastrata, con uno Jobs act a dir poco fallimentare, la “Buona scuola”, meglio stendere un pietoso velo, per la politica sull’immigrazione parlare di fallimento dell’accoglienza è ancora un eufemismo, per non parlare poi delle riforme costituzionali di cui oggi si vede tutta la loro pochezza e improvvisazione infine e per concludere, tra le tante, la grave situazione delle banche e di conseguenza del credito. Solo un anno fa, ricorderete, Renzi rassicurava gli italiani della solidità di Mps, invitando addirittura ad investirci sopra. Inutile ogni commento.
Le cifre sull’economia sono spietate e lasciano l’amaro in bocca perché non si intravede neanche un barlume di luce in fondo al fatidico tunnel tanto che nell’annuale rapporto Davos, uscito lunedì scorso, sulle trenta nazioni più sviluppate siamo terz’ultimi da quasi metà classica di qualche anno fa e come se ciò non bastasse sempre lunedì, il Fondo Monetario riduce la nostra crescita di quest’anno da un misero + 0,9 allo striminzito  +0,7% . La nostrae’ l’unica economia che rallenta nell’area euro che invece aumenta del +1,6. Man mano che Renzi si allontana dalla scena politica cominciano a delinearsi i dati di come sta realmente l’Italia anche negli ambienti un tempo favorevoli al governo, senza i racconti favolistici che abbiamo avuto in questi tre anni, ma il vero dramma è che all’orizzonte non si intravedono politici capaci di guidare il Paese fuori da questa crisi. 
A conferma di questa situazione, recentemente sono stati pubblicati dalla Confesercenti i dati dei negozi al dettaglio, la spina dorsale del paese.
Dati impietosi che prendono a paragone il 2010. Sembra passato un secolo eppure sono solo sei anni che hanno cambiato tutto il nostro modo di pensare e di agire, come dimostrano questi dati sul commercio.
Tra il 2010 e il 2016 si è avuta una riduzione del venduto di circa 10 punti percentuali e sebbene gli alimentari siano in calo dell’ 1,9%, a influire maggiormente in negativo sono i generi non alimentari con -7,9%,  lo stesso si può affermare per i grandi negozi dove la contrazione delle vendite è rilevante, pari al -5,4% dal 2010 a oggi.
Per quanto riguarda la spesa alimentare a farla da padrone sono solo i discount, +13,9% con percentuali di crescita sempre maggiori ogni anno fino al 2015.
Un dato contro corrente, anche se ancora esiguo, é il ritorno della spesa per i beni durevoli con un + 0,6 come l’auto o arredamento e un +1,7 per i servizi.
Un piccolo segnale, certo, ma che ha bisogno di conferme nel tempo per definirlo una contro tendenza economica strutturale.
Nel frattempo la situazione, nonostante questo breve lampo, rimane grave come per l’abbigliamento e le calzature, -9,5% per arrivare ai beni non durevoli, come i detergenti o i medicinali, -7,4%.
In particolare i segni negativi più pesanti, nel confronto dal 2010 a oggi, sono segnati da libri giornali e riviste, -17,7%, seguiti da elettrodomestici, radio, tv e registratori, -15,6%, e nonostante la smania dei cellulari, spendiamo meno anche per la telefonia o per l’informatica, -12,8% e per la fotografia, -10,7%.
Risultato di questa situazione è la chiusura dei negozi che proseguono a chiudere a ritmi vertiginosi; solo nel 2016 quasi 15mila negozi al dettaglio hanno calato definitivamente la serranda nel centro-nord e oltre 10 mila nel Sud e nelle isole.
Dal 2007 ad oggi il numero di esercizi commerciali è diminuito di quasi 91mila unità, in pratica ha chiuso per crisi un negozio su dieci e chi resiste sul mercato non riesce a guadagnare a sufficienza, non solo per i mancati introiti dai clienti, ma per i costi di gestione come: gli affitti, il costo del personale ancora troppo alto, (dimostrando tutto il fallimento delle politiche sul lavoro, ndr) e, infine, le tasse sempre più eccessive che tolgono anche quel ristretto margine di guadagno.
Oggi, denuncia la Confesercenti, non si possono fare assunzioni a tempo indeterminato per la grave situazione economica e i tanto famigerati voucher che, pur con i suoi limiti e abusi, rimane ancora uno strumento valido, almeno finché non si interviene sulla pressione fiscale e sul costo del lavoro, per ridare una boccata di ossigeno alle assunzioni senza inutili incentivi che durano il lasso di un breve periodo.
Il problema della crisi del commercio non è solo economico, già grave di per se, quanto anche sociale. Molte zone delle nostre città rischiano fra appena dieci anni, se non si inverte la politica economica, di avere strade o interi quartieri al buio, senza negozi, insegne e una movimentazione urbana, lasciandoli all’isolamento e al degrado interi quartieri il tutto con una crisi economica ancora più devastante.

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::autore_::di Antonello Cannarozzo::/autore_:: ::cck::1786::/cck::

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