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Problemi reali, funambolismi politici

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Militari dell’Esercito impegnati nello sgombero dalla neve dei centri abitati. Foto via Ministero della Difesa.
Colpisce la distanza tra le strutture del paese che operano nelle situazioni più difficili, e la dialettica politica sulla legge elettorale che sembra essere il solo rovello sul quale concentrarsi.

La tragedia che ha colpito le regioni centrali del paese e l’accavallarsi di fenomeni meteorologici non certo frequenti con le caratteristiche di queste settimane ha creato una evidente dicotomia nel paese tra quello che è e quello che potrebbe essere. Ma ha anche manifestato con evidenza palmare quali sono i veri e gravi problemi da affrontare, le scelte da compiere per innescare percorsi virtuosi che impediscano alla radice il ripetersi delle situazioni e delle concause degli avvenimenti, o quanto meno di riuscire a prevederli o contenerli con un approccio che da decenni latita: quello di una attenta programmazione di interventi che sia affrancata dalla mobilità di governi e maggioranze e che risponda al supremo interesse della sicurezza e della serenità delle comunità e dell’intero paese.
Lo spettacolo che dunque colpisce è la distanza siderale tra le strutture del paese che si muovono e operano nei teatri più difficili, affrontando situazioni apparentemente senza sbocco e la dialettica politica sulle questioni istituzionali e sulla legge elettorale che sembra essere il rovello unico sul quale concentrarsi. L’unica nota positiva è che il dibattito in questione avviene sullo sfondo, non sembra interferire con lo sforzo dell’emergenza, quasi per un po’ di pudore e forse vergogna a discettare su arcane formule o mirabolanti sistemi o anche su nessun sistema (in attesa della decisioni della Consulta), mentre le emergenze sovrastano la realtà e si moltiplicano da nord a sud e nel centro hanno raggiunto la massima concentrazione quanto a distruttività ed impatto.
Due paesi, come sempre, due realtà contrapposte e non dialoganti. Una cesura evidente con l’aggravante che anche i partiti e movimenti populisti sembrano più avvinti dalle spire ammalianti delle questioni elettorali che non dai problemi drammatici da dover affrontare. Costruire formule e meccanismi, immaginare scenari del dopo Consulta, mentre ancora i massimi giudici devono riunirsi e decidere appare un po’ come discettare sul sesso degli angeli, mentre impegno e chiarezza dovrebbero privilegiare l’azione parlamentare accanto a quella del governo per aiutare le popolazioni colpite e in difficoltà.
E’ strano, ma a parte le solite polemiche su come si è intervenuti e si interviene, non si avverte quel senso di appartenenza ad un unico popolo, ad un’unica realtà nazionale che ha segnato altre stagioni del paese. Emerge invece una forte divisione che, prima ancora che politica e nei partiti, è sociale. Il malcontento per le difficoltà economiche sta spaccando il paese creando faglie che non hanno precedenti e che sono complesse da comprendere. Non sono solo tra nord, centro e sud, ma attraversano ogni angolo del paese e trovano alimento nelle posizioni e nei funambolismi di politici per i quali la prevalenza del particolare è l’unica via per esistere e differenziarsi dagli altri, per distinguersi dal “sistema” e via dicendo.
Ad adiuvandum questa tendenza poi si aggiungono fenomeni internazionali, forti cambiamenti come quello della Brexit o l’affermarsi di un nuova leadership negli Stati Uniti, che spingono con forza nella direzione di una parcellizzazione e di un populismo nazionalista deleterio per la stessa essenza dell’Europa della quale facciamo parte. Naturalmente, come spesso accade, le declinazioni nostrane attraverso le quali questi scenari vengono vissuti o rappresentati assumono connotati specifici e scontano tutti i problemi, i ritardi, le contraddizioni proprie del nostro specifico nazionale. Appare dunque puerile l’atteggiamento di molti leader che vorrebbero dare per scontato l’eguaglianza dei loro movimenti con quelli di riferimento all’estero, quando le condizioni di partenza e le esigenze che essi esprimono sono assolutamente nostrane e nulla hanno in comune se non la protesta e qualche parola d’ordine. Difficile avvicinare la destra francese a quel che ne rimane in Italia, oppure alla Lega di Salvini che sembra aver trovato casa a Parigi, così come a quella tedesca.
Ancora più complesso decrittare che cosa abbiano a che fare i grillini italiani con l’Ukip di Farage, a parte la incredibile giravolta di qualche settimana fa con l’abbandono e il rientro all’ovile. Ma è anche nei partiti più tradizionali per così dire che si riscontra questa stranezza, la difficoltà di rappresentare quelle che una volta si indicavano come classi sociali o settori della società. Il rimescolamento di questi decenni, i cambiamenti del mondo del lavoro e della produzione hanno fatto esplodere ogni precedente certezza creando una forte disomogeneità all’interno di gruppi sociali una volta più coesi e uniformi. Arduo dunque pensare di ascrivere qualcuno a qualcosa. Mai come in questi anni la realtà italiana assomiglia a quella che per altri versi e ragionamenti veniva definita da Bauman la “società liquida”. Un liquido che non sembra ancora in condizioni di trovare un collante coerente, un terreno condiviso.
Di qui quella sensazione di distacco, di distanza tra una politica che si arrovella in formule, slogan, alla ricerca di una vera rappresentanza da tempo indebolita e un paese che nonostante tutto prova ad affrontare e risolvere i problemi, le emergenze, i nodi irrisolti di sempre e che nessuna formula politica o nessuna invenzione di guru sembra in grado non tanto di risolvere ma neppure di rappresentare e interpretare all’altezza della complessità e delle difficoltà concrete. Un distacco e un ritardo che andrebbe colmato – e presto – per rimettere il paese su un binario costruttivo e all’interno di un’Europa che ci ha visto fondatori ma che sembra guardarci sullo sfondo, incapaci di riprendere in mano il nostro destino!

di Roberto Mostarda

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