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Sarebbe preferibile lavorare per identificare soluzioni semplici a problemi complessi, piuttosto che procedere nella direzione opposta privilegiata in Italia: e cioè complicare ciò che è semplice.
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Potrebbe apparire scontato il significato della parola scelta questa settimana, ma la complessità spesso verbosa ed inutile che circonda la vita politica e sociale del nostro paese la rende meno ovvia. Definire poi la semplicità potrebbe rivelarsi tutt’altro che semplice. Il termine deriva dal latino simplicĭtas (anticamente anche l’italiano impiegava la versione simplicità). In prima battuta il termine indica la qualità di ciò che è semplice: un corpo, un elemento; se la maggiore e minore velocità possono alterar la semplicità del moto, nessun corpo semplice si muoverà mai di moto semplice, osservava Galileo Galilei alle prese con i corpi celesti in eterno movimento nell’universo e in interazione continua tra loro.
Più comunemente, sempre attenendoci al dizionario e in vari significati estensivi e figurati dell’aggettivo semplice, si tende a indicare la facilità: un ragionamento; il valore di un problema; ancora, la schiettezza, la naturalezza, o la modestia, la sobrietà. Così si parla ad esempio di semplicità dei modi, di vita, di costumi; nel vestire. Si vive anche con grande semplicità, si arreda uno spazio con estrema semplicità. Ma semplice può anche essere uno stile, una scelta di linee architettoniche.
Sotto il profilo umano la semplicità può anche riferirsi all’ingenuità, alla mancanza di malizia. Così si parla di quella d’animo; ma anche di dabbenaggine e di sciocchezza. Esiste anche un principio di semplicità, in base al quale si asserisce che fra due possibilità (per es. due ipotesi per una teoria scientifica), a parità di altre condizioni va assegnata maggiore plausibilità a quella che si può formulare nel modo più “semplice”, guarda caso; il principio consente, almeno in certi casi, di ordinare diversi enunciati in base alla loro probabilità (e si noti, osserva il dizionario, che la semplicità della formulazione può dipendere anche dal linguaggio usato).
Non si può certo dire che le affermazioni raccolte facciano poi molta luce su questa parola e su quello che realmente essa vuol significare. Forse è anche per questo che non esistono spesso cose semplici, anche quando ad occhio lo sono o almeno lo sembrano. E quindi è tutt’altro che “semplice” definire la semplicità, cioè il senso compiuto di un atto o di un comportamento “semplice”, per l’appunto.
Prima di perdersi in una sorta di gioco dialettico dai confini e dagli esiti non preventivabili, giova forse avvicinarsi in concreto alla realtà del nostro paese e fare qualche osservazione per accorgersi abbastanza presto che viviamo in una realtà dove nulla è semplice, neppure ciò che veramente lo è. Anzi, potremmo dire senza tema di smentite che il nostro sistema politico, economico, sociale, per come si è andato sviluppando, abbia inesorabilmente imboccato la strada della negazione della semplicità. La prova più eclatante di questo assunto sta nella costituzione qualche anno fa di un dicastero per la semplificazione il cui lavoro non sembra aver migliorato molto, anzi in alcuni casi ha aggravato contro il suo stesso fine, la realtà. Il solo pensare che fosse necessario un ufficio di governo per “semplificare” può dar luogo a due reazioni: la prima di sostanziale sgomento, la seconda di ilarità senza freni. Pur dinanzi all’estrema gravità che la mancanza di semplicità provoca nella vita nazionale sovente anche in occasione di eventi drammatici.
Non c’è nulla di più complesso, dinanzi alla realtà italiana, che provare a parlare in modo semplice dei problemi che caratterizzano in ogni ambito, ogni giorno, il nostro paese.
Eppure è proprio nella ricerca della semplicità che sta il nocciolo. Sarebbe preferibile infatti cercare, lavorare, impegnarsi per identificare soluzioni semplici ai problemi complessi piuttosto che procedere nella direzione opposta privilegiata dalle nostre parti, ossia complicare ciò che è semplice e dunque delineare risposte complesse per problemi semplici. Non è una boutade, ma un dato di fatto. Ogni passo, ogni scelta opportuna o necessaria sovente manifestano una sostanziale semplicità ed immediatezza nell’essere riconoscibili e riconosciuti. Dunque si potrebbe dedurre che le decisioni concrete debbano ovviamente seguire questa linea retta propria, appunto, della semplicità.
Nulla di tutto questo. Il complicatore è uno degli esempi più fervidi di occupazione nella nostra realtà nazionale. E’ presente ovunque, si annida in ogni dove, appare sempre quale insalutato ospite ed è poi impossibile farne a meno o meglio liberarsene! Egli vive nella consapevolezza della sua innata e incredibile capacità di rimestare sempre le carte in modo da complicare ogni cosa, incastrare, incagliare, creare ostacoli anche laddove tutto sembrava lineare e piano. Molti, moltissimi anni fa era stata coniata per questa figura retorica ma molto reale un’espressione che suonava così: ufficio complicazione affari semplici (indicato in burocratese come Ucas) proprio per sottolineare l’istituzionalizzazione della presenza di questa realtà nella nostra vita pubblica e privata, nel nostro sistema e forse nel nostro sesso dna. Ebbene, malgrado sforzi immani, tentativi generosi, impegni volenterosi e diuturni, l’Ucas è sempre attivo e compie la sua funesta opera in ogni angolo del paese e del sistema. Si manifesta in interminabili adempimenti, in codici e codicilli intricati, in regolamenti altrimenti sintetizzabili in poche parole e prevede, a sua stessa salvezza, la necessità che tutto questo fardello di parole sia sempre presente in ogni atto o negozio, anche quando il testo di un provvedimento potrebbe constare di una manciata di termini e di poche, a volte una, frasi!
Ma allora, si potrebbe dire, perché non liberarsene, finalmente; perché non dire pane al pane e vino al vino come recita l’antico adagio; poche parole, ma chiare? La risposta non è che una e immediata: sarebbe troppo semplice!
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::autore_::di Roberto Mostarda::/autore_:: ::cck::1808::/cck::