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Durante una telefonata con il presidente messicano, Trump avrebbe minacciato l’invio di truppe americane in Messico per fermare i narcotrafficanti. Ma la guerra militarizzata alla droga è un approccio già rivelatosi fallimentare.
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Il 19 gennaio scorso Joaquín Guzmán, alias El Chapo, leader del Cartello di Sinaloa nonché «il narcotrafficante più potente del mondo» secondo gli Stati Uniti d’America, è stato estradato a New York dopo una complessa battaglia legale in Messico durata svariati mesi e fatta di continui ricorsi e di ingiunzioni in tribunale.
Il particolare tempismo dell’estradizione – il 20 gennaio si sarebbe tenuta la cerimonia d’insediamento di Donald J. Trump – ha fatto parecchio discutere. Si è trattato di un “regalo” delle istituzioni messicane al nuovo presidente, magari per cercare di ammorbidirne le posizioni, oppure no? La risposta corretta è la seconda. Non si è trattato di un regalo a Trump perché l’estradizione di El Chapo era già stata ufficialmente concessa il 20 maggio scorso e poi ribadita il 20 ottobre: l’8 novembre, data delle elezioni americane, non era lontanissima, ma tutti ricorderanno come Trump non fosse esattamente dato per favorito.
Sebbene nessuno si aspettasse un epilogo così rapido, considerati i tempi della giustizia messicana, l’estradizione di Joaquín Guzmán era insomma una questione di giorni, ma che il giorno sia stato proprio il 19 gennaio e non un altro qualsiasi fa pensare certamente ad una mossa politica più che ad una semplice coincidenza. Non c’era infatti occasione migliore – né altra occasione disponibile, in realtà – per impedire a Donald Trump di prendersi il merito (ovviamente inesistente: sia la ricattura di Guzmán che l’avvio delle procedure necessarie ad ottenerne la consegna sono avvenute durante la presidenza Obama)del tanto desiderato trasferimento del Chapo negli Stati Uniti.
Il New York Times ha scritto che l’estradizione di Guzmán rappresenta «una lezione per Trump», perché resa possibile dall’approccio «rispettoso» dell’amministrazione Obama nei confronti del Messico e della sua sovranità. Donald Trump, al contrario, ha scelto di percorrere una strada completamente diversa, umiliando ripetutamente il popolo messicano e le sue istituzioni, preziose alleate nella lotta al crimine organizzato. Il 27 gennaio scorso, su Twitter, ha ad esempio accusato (per l’ennesima volta) il Messico di essersi «approfittato degli USA per troppo tempo» e di offrire solo un «piccolo aiuto» nella salvaguardia del «molto debole» confine.
Grazie alle trascrizioni della telefonata con il presidente messicano Peña Nieto, pubblicate dalla giornalista di Forbes Dolia Estévez e dalla Associated Press, sappiamo anche che Trump avrebbe minacciato l’invio di truppe statunitensi in Messico per fermare i «bad hombres» (i narcotrafficanti) vista la troppa «paura» dei soldati messicani. Secondo il portavoce della Casa Bianca si sarebbe trattato soltanto di commenti «scherzosi». Intervistato da Fox News il 5 febbraio, Trump stesso ha tuttavia confermato di aver discusso con Peña Nieto riguardo un intervento militare americano contro i cartelli della droga, aggiungendo che Peña Nieto si sarebbe mostrato addirittura «molto disposto a ricevere aiuto». Qualche giorno dopo, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo proprio contro i cartelli, che non contiene però che vaghe intenzioni apparentemente non sostenute da una elaborata e robusta strategia concreta.
Trump potrebbe voler seguire le orme del suo predecessore Nixon (che nel 1971 lanciò la War on Drugs, la guerra alle droghe) e del presidente messicano Calderón (che nel 2006 replicò il modello nixoniano in Messico), riproponendo un approccio fortemente militarizzato contro il narcotraffico che si è ripetutamente dimostrato non soltanto inefficiente, ma dannoso. Dieci anni di “narcoguerra” messicana – finanziata anche dagli Stati Uniti – non sono infatti riusciti a debellare definitivamente il fenomeno. Al contrario, per ogni grande cartello che veniva sconfitto, tanti piccoli gruppi nascevano dalla sua dissoluzione: secondo alcuni studi, nel 2007 in Messico operavano 20 organizzazioni criminali; solo nel 2011 il loro numero era già salito a 200. Di riflesso, secondo stime ufficiali probabilmente al ribasso, dal 2007 sono stati uccisi almeno 200.000 civili e più di 28.000 risultano dispersi, mentre i casi di tortura ad opera delle forze armate sono aumentati del 600% dal 2003 al 2013.
Conclusosi il sessennio di Calderón e iniziato quello di Peña Nieto, è cambiata la retorica ma non la sostanza della “narcoguerra”. Secondo statistiche ufficiali, il tasso di omicidi nel 2016 (si parla di 20.789 casi registrati) è aumentato del 22% rispetto al 2015: si tratta dell’incremento annuo più alto mai registrato dal 2010, quando il tasso aumentò del 28% rispetto al 2009. Nel 2011, l’anno più violento mai registrato finora in Messico, i morti assassinati ammontavano a 22.852.
Per il Messico Trump non rappresenta solo una seria minaccia economica. Qualora il presidente americano decidesse infatti di dare nuovo impulso alla War on Drugs e riuscisse a cingere la frontiera con un «grande muro», il Messico potrebbe conoscere un’ulteriore crescita della violenza, specialmente nelle regioni settentrionali. Il muro non fermerà certo né le migrazioni né tantomeno il narcotraffico, ma probabilmente ridurrà il numero degli “ingressi” utili al contrabbando – che aumenteranno così di importanza e valore – e innescherà nuove contese territoriali (o esaspererà quelle già in corso, come a Ciudad Juárez e a Tijuana) tra i cartelli che vorranno assicurarsene il possesso.
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::autore_::di Marco Dell’Aguzzo::/autore_:: ::cck::1856::/cck::