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Duterte ha deciso di fare pulizia di qualsivoglia devianza con le manieri forti, scavalcando ogni forma di tutela legale per coloro che vengono considerati colpevoli di possesso o spaccio di droga.
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Nell’epoca degli “uomini forti”, il presidente delle Filippine Rodrigo Duerte spicca per la violenza che sta profondendo nel suo paese.
La cosiddetta guerra alla droga, punto cardine che ha consentito all’ex-sindaco della città di Davao, nell’isola di Mindanao, di vincere le elezioni nel maggio dello scorso anno, è già costata la vita ad oltre 7mila persone. Una mattanza che ha visto coinvolti poliziotti, formazioni paramilitari e squadroni della morte che rispondono solo ai suoi ordini. La maggior parte degli omicidi sono avvenuti nelle baraccopoli della capitale Manila, dove le condizioni di vita della popolazione sono al limite del sopportabile e dunque dove la piaga della diffusione dell’alcol e delle sostanze stupefacenti è particolarmente invasiva.
Duterte ha deciso di fare pulizia di qualsivoglia devianza con le manieri forti, scavalcando ogni forma di tutela legale per coloro che vengono considerati colpevoli di possesso o spaccio di droga o anche solo sospettati di aver a che fare con qualche traffico illecito. Un atteggiamento che di fatto pone le Filippine al di fuori di ogni convenzione internazionale in materia di diritti umani, come ha ribadito l’associazione Human Rights Watch, che ha parlato senza mezzi termini di crimini contro l’umanità.
La carneficina in corso nell’arcipelago asiatico sta destando forte preoccupazione nella chiesa cattolica, la cui influenza nel paese è particolarmente sentita, essendo il 90% della popolazione di religione cristiana. La Conferenza Episcopale delle Filippine ha deciso di condannare con una lettera diffusa nelle migliaia di chiese l’ondata di violenza scatenata dal presidente Duterte. Le maniere forti del leader filippino non si sono limitate solo ai presunti consumatori di droga. Con la retorica che gli è propria ha attaccato anche la comunità omosessuale del paese ed i membri dei partiti d’opposizione che in questi mesi hanno criticato il suo operato.
Nel mirino di Duterte è finita in particolare la deputata Leila De Lima, ex-ministro della Giustizia nel governo di Benigno Aquino III e presidente della commissione per i diritti umani, donna che ha saputo guadagnarsi la fama d’incorruttibile e coraggiosa combattente. La De Lima è stata arrestata con l’accusa di aver agevolato le condizioni carcerarie di alcuni detenuti, accusa chiaramente tutta da verificare, ma che mira a mettere in fuori gioco la sua principale avversaria ed a costituire un monito per tutti coloro che osano contrastarlo.
Anche sul fronte della politica estera Duarte non ha mancato di usare una violenza che raramente viene messa in campo da un capo di stato. Nel mirino è finito addirittura l’ex presidente statunitense Barack Obama, definito “figlio di puttana”, mettendo così in discussione l’alleanza tra Manila e Washington, proprio in un momento storico contraddistinto da forti tensioni nell’area del Pacifico.
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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::1882::/cck::