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Speciale: i profughi climatici da Tuvalu

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Tuvalu - Funafuti – Approach, foto di Stafan Lins (CC BY 2.0)
Nell’oceano pacifico le conseguenze dell’innalzamento del mare causato dal riscaldamento globale sono evidenti e causano la migrazione forzata delle popolazioni residenti.

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Valerio Calzolaio segue da diverso tempo con competenza ed attenzione gli sviluppi delle migrazioni nel mondo. Nel 2010 ha pubblicato un libro, ristampato nel 2016, dal titolo eloquente: Ecoprofughi. Migrazioni forzate di ieri, di oggi e di domani (Ed. NDA), seguito dal libro Libertà di migrare scritto con Telmo Pievani (Ed. Einaudi).
Ospite del RomeSymposium 2017 sul Cambiamento Climatico, Valerio Calzolaio ha presentato agli esperti internazionali convenuti da tutto il mondo presso l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) una relazione sui diversi aspetti e punti di vista delle migrazioni e della condizione di rifugiati. Riportiamo di seguito un estratto della sua relazione, che descrive un caso di migrazione forzata causata dal cambiamento climatico.
C’è un piccolo arcipelago nell’oceano Pacifico, situato 3.400 chilometri a nord est dell’Australia, con oltre 11.000 abitanti, il terzo paese meno abitato al mondo (più della Città del Vaticano comunque), uno Stato nazionale membro dell’ONU (dal 2000) di otto atolli corallini e 26 chilometri quadrati, Tuvalu, stato indipendente (dal 1978), monarchia parlamentare (il capo di stato è la regina britannica), capitale Vaiaku. Circa diecimila abitanti vivono a un’altezza inferiore a 2 metri sopra il livello del mare. L’arcipelago mostra da molto tempo segni degli effetti dei cambiamenti climatici: il mare s’innalza almeno 6 millimetri l’anno, sono affondati molti alberi di palma, villaggi sono spesso inondati (a Latau più volte l’anno), sono scomparse le spiagge di sabbia bianca. Gli abitanti sono in qualche modo emigrati profughi climatici di fatto.
Nel maggio 2004 circa 3 mila donne e uomini di Tuvalu sono divenuti ufficialmente potenziali profughi climatici. Il governo della Nuova Zelanda ha concertato un programma immigratorio (75 immigrati dalle isole di Tuvalu) riconoscendo i profughi climatici di diritto, anche di Kiribati, Tonga, Fiji. Non ogni cittadino potrà andarsene: quelli che hanno determinate età, disponibilità lavorative, conoscenze linguistiche, ecc.; andarsene resterà difficile (o illegale) per poveri e anziani. L’Australia ha inizialmente scelto di non aderire a causa del governo (pro tempore) che non voleva ratificare il protocollo di Kyoto.
Poi nel luglio 2015 la giustizia neozelandese ha respinto la prima richiesta ufficiale. Il 38enne Teitiota, originario delle Kiribati, un arcipelago del Pacifico minacciato dall’innalzamento del livello del mare, aveva presentato la richiesta di asilo climatico sostenendo che lui, la moglie e i tre figli, tutti nati in Nuova Zelanda, correrebbero un pericolo mortale se fossero rimpatriati. La corte suprema neozelandese ha però stabilito che il richiedente non soddisfaceva i criteri necessari per ottenere lo status di rifugiato, ovvero essere minacciato di persecuzione nel suo paese natale. Sebbene Kiribati si trovi “incontestabilmente di fronte a sfide” climatiche, la corte suprema ha stabilito che “Teitiota non corre un ‘grave pericolo’ nel suo paese natale”. Kiribati, insieme alle Maldive, a Tuvalu e a Tokelau, fa parte degli stati insulari che potrebbero ritrovarsi “senza terra” a causa del riscaldamento climatico, secondo la Commissione dei diritti umani dell’Onu. Intere zone dell’arcipelago, composto da una trentina di atolli corallini la maggior parte dei quali si trova appena sopra il livello del mare, vengono regolarmente sommerse dall’oceano.
Il caso di Tuvalu non è unico. Già quaranta famiglie hanno abbandonato la piccola isola di Ontong Java nell’arcipelago delle Salomone. Altrettanto noto è il più grande arcipelago delle Maldive, 1192 isolette e atolli nell’oceano Indiano, molti senza alture (anche di pochi metri), alcuni abitanti. Hanno di fronte agli occhi il lentissimo innalzamento del mare e ondate di maree sempre più frequenti che periodicamente anticipano un probabile futuro permanente. I turisti potranno migrare altrove. I singoli abitanti potranno acquistare terre altrove o dovranno organizzare altre vie di fuga. E ancora diverso sarà il caso di alcune zone costiere: l’United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization (UNESCO) ha già indicato nel 2000 la prima città di terra a rischio di scomparsa, è St. Louis, antica capitale del Senegal a nord di Dakar; da qualche tempo profughi climatici hanno cominciato a fuggire, soprattutto verso la Mauritania (e via terra o mare verso la Spagna).
Dai rapporti IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite) emergono alcuni impatti globali, univoci, certi, seppur in dimensioni diverse nei vari scenari temporali e con un grado diverso di vulnerabilità geografica. Secondo l’ISDR (International Strategy for Disaster Reduction), i rischi di morte per inondazione sono cresciuti del 13% dal 1990 al 2007, la percentuale di popolazione coinvolta del 28%; inoltre, sulla base delle esperienze del passato e degli scenari di previsione, oltre il 75% degli stessi rischi si concentreranno in pochi paesi: quelli del monsone (Bangladesh, India, Pakistan) e la Cina. I rischi non sono conseguenza solo dell’esposizione e dell’intensità: un’isola o un paese poco popolato o un piccolo paese povero rischiano vita e sviluppo delle intere popolazioni per generazioni. migrazioni forzate. Complessivamente, al 2050 il rischio di divenire profughi climatici a causa di tali impatti, il rischio anche nello scenario migliore, non riguarda meno di 200 milioni di donne e uomini.

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::autore_::di Massimo Predieri::/autore_:: ::cck::2020::/cck::

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