La parola

Autodeterminazione

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I recenti avvenimenti in Catalogna e nel Kurdistan iracheno, pur con evoluzioni differenti, hanno portato all’attenzione il concetto che si esprime con il termine scelto questa settimana, che sovente si collega a quello di indipendenza.

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I recenti avvenimenti in Catalogna e nel Kurdistan iracheno, pur con evoluzioni differenti, hanno portato all’attenzione il concetto che si esprime con il termine scelto questa settimana, che sovente si collega a quello di indipendenza.
L’autodeterminazione – osserva il dizionario – è il principio in base al quale i popoli hanno diritto di scegliere liberamente il proprio sistema di governo (autodeterminazione interna) e di essere liberi da ogni dominazione esterna, in particolare dal dominio coloniale (autodeterminazione esterna).
Storicamente è stato proposto durante la Rivoluzione francese e poi sostenuto, con diverse accezioni, da statisti quali Lenin e Wilson. Il principio implica la considerazione dei diritti dei popoli, in contrapposizione a quella degli Stati intesi come apparati di governo. In tal senso, questo concetto è potenzialmente in conflitto con la concezione tradizionale della sovranità statale; la sua attuazione deve inoltre essere contemperata con il principio dell’integrità territoriale degli Stati. In sostanza, un diritto così “soggettivo” dei popoli si contrappone ad un diritto oggettivo, quello delle istituzioni statuali che si sono stoicamente determinate. 
All’indomani delle due guerre mondiali e soprattutto nell’epoca della decolonizzazione si è avuta la massima espressione del concetto. In termini giuridici internazionali il principio è stato affermato nella Carta Atlantica (14 agosto 1941) e poi nella Carta delle Nazioni Unite (26 giugno 1945; art. 1, par. 2 e 55) e successivamente ribadito nella Dichiarazione dell’Assemblea generale del Palazzo di Vetro sull’indipendenza dei popoli coloniali (1960); nei Patti sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali (1966); nella Dichiarazione di principi sulle relazioni amichevoli tra Stati, adottata dall’Assemblea generale nel 1970, che raccomanda agli Stati membri dell’ONU di astenersi da azioni di forza volte a contrastare la realizzazione del principio di autodeterminazione, e riconosce ai popoli il diritto di resistere, anche con il sostegno di altri Stati e delle Nazioni Unite, ad atti di violenza che possano precluderne l’attuazione.
Nel diritto internazionale, l’affermazione dell’autodeterminazione dei popoli – frutto di un processo graduale a lungo contrastato dai paesi occidentali e fortemente collegato, nella prassi, alla fortunata azione dell’ONU a favore della completa decolonizzazione – è ormai acquisita sul piano consuetudinario limitatamente al divieto di tre specifiche fattispecie, qualificate come crimini internazionali: la dominazione coloniale, l’occupazione straniera e i regimi di segregazione razziale (apartheid) o altrimenti gravemente lesivi di diritti umani fondamentali.
Sin qui la dottrina e gli ancoraggi di principio. Tuttavia, al di fuori delle indicazioni in essi contenuti, da più parti si sottolinea che non esistono generici riconoscimenti di tale diritto tali da consentire di proporre secessioni interne a stati già costituiti e presenti alle Nazioni Unite.
La realtà è che non ci sono verità assolute, anche perché da sempre il diritto internazionale si evolve insieme ai cambiamenti del mondo. Ossia quello che oggi è illegale, domani potrebbe diventare legale; e in ogni caso “legale” e “illegale” sono concetti diversi da “giusto” e “sbagliato”. Inoltre non sempre le cose in questo mondo funzionano secondo le norme del diritto internazionale, le quali nella realtà dei fatti sono dei paletti che gli stati hanno deciso di fissare, ma che spesso decidono di aggirare. Può accadere cioè che uno stato, pensiamo alla Russia, sostenga la secessione di una regione, ricordiamo la Crimea, dall’Ucraina sostenendo apertamente e non solo idealmente le forze indipendentiste e giustificandone l’azione come legittima affermazione di indipendenza. Nel caso specifico, secondo alcuni commentatori all’aspirazione di indipendenza si è sovrapposta una sostanziale annessione alla Federazione.
Al di là di queste premesse, si può dire che in diritto positivo internazionale e nei riferimenti costituzionali interni agli stati non esiste alcun diritto alla secessione espressamente e pacificamente riconosciuto, e che il principio di autodeterminazione non funziona spesso come viene indicato in teoria.
L’assetto internazionale attuale pone in evidenza che esso stesso è fondato su due idee che finiscono per essere inevitabilmente in tensione tra loro: i confini degli stati sono sacrosanti e i popoli hanno il diritto a determinare il loro status politico. Di assoluta chiarezza e comprensione il primo assunto: se i confini statuali sono indiscutibili, ne deriva che esso è fondamentale per garantire la sopravvivenza degli stati. Se fossero permessi come diritti dei popoli ribellioni, invasioni, annessioni e così via, gli stati sarebbero costantemente in pericolo e l’attuale sistema non reggerebbe a lungo, facendo ripiombare il mondo nel caos e nella violenza più assoluta.
Per quel che riguarda il secondo principio, cioè il diritto dei popoli a decidere per sé, la sua origine è molto più recente ed è stato formulato per proteggere i cittadini di un territorio da potenze occupanti, e in misura minore dagli abusi dei dittatori. Ha avuto successo, ancora, nell’epoca della decolonizzazione e nella fine dei grandi imperi.
Nei casi che la cronaca internazionale ci pone dinanzi in queste settimane, appunto quello catalano o quello dei curdi iracheni, assistiamo allo scontro immediato tra i due principi, che pone la comunità internazionale dinanzi alla necessità di trovare una soluzione che consenta all’uno o all’altro di prevalere. A Barcellona, non esistono ragioni di violenza, di oppressione, della comunità locale da parte dello stato spagnolo. La Catalogna gode di un’ampia autonomia: dunque, il referendum e l’aspirazione all’indipendenza nascono da scelte che il diritto internazionale non può considerare legali. Anche se la specificità della regione catalana crea suggestioni indubbie ed interessanti.
Per il Kurdistan iracheno ci si trova dinanzi ad una condizione diversa. In primo luogo all’occasione storica per il popolo curdo di affermare la propria specificità dopo l’oppressione secolare da parte dei vicini storicamente prevalenti: la Turchia, l’Iran, l’Iraq. In secondo luogo, per la sostanziale insussistenza di un Iraq realmente sovrano sul suo territorio: pensiamo alle zone occupate dall’Isis, ai sunniti della provincia di al Anbar, alla pressione turca, ai confini e contro tutto ciò che si definisce curdo.
A Barcellona si è assistito all’intervento pesante della Guardia civil e al tentativo di Madrid di impedire il voto. Ad Erbil, il referendum si è svolto pacificamente, ma tutti i vicini minacciano sanzioni, chiusura dei confini, e non escludono azioni militari.
Come dicevamo, il contrasto tra i due principi non trova soluzioni nel diritto internazionale e mette a dura prova equilibri che si ritenevano ormai raggiunti e quanto meno considerati immutabili.

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::autore_::di Roberto Mostarda::/autore_:: ::cck::2235::/cck::

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