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Per il governo dei flussi migratori West Africa – Europa, è importante l’accordo Italia – Niger del 31 marzo scorso. Manca ancora, però, un riconoscimento giuridico della rappresentatività politica degli organi di governo.
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Nella strategia governativa di contenimento dei flussi migratori, che dal West Africa puntano all’Europa, via Mediterraneo, uno dei tasselli fondamentali è senza dubbio l’accordo stipulato tra Italia e Niger il 31 marzo scorso.
Un accordo frutto di una paziente attività che aveva già indotto la nostra diplomazia, mesi prima, all’apertura dell’Ambasciata italiana a Niamey, seguita poi, il 27 settembre scorso, dall’intesa di cooperazione bilaterale sulla sicurezza siglata dai rispettivi ministri della Difesa, Roberta Pinotti e Kalla Moutari.
Tra le pieghe dell’accordo s’intravede anche un interesse italiano ad entrare a pieno titolo nella Forza congiunta “G5 Sahel”, di cui fanno parte oltre al Niger anche Mauritania, Mali, Burkina Faso e Ciad, con Francia e Germania come sponsor esterni. Questo allargamento all’Italia renderebbe più fluido anche un adeguato finanziamento di matrice UE: Francia, Germania ed Italia “pesano”, dal punto di vista degli aiuti a carico dell’Unione in maniera pressoché uguale. Negli ultimi tempi, dunque, consistenti passi avanti sono stati compiuti dal nostro Governo nella realizzazione dei presupposti per controllare in loco i flussi migratori, ma la strada è ancora lunga.
Ha fatto scalpore la notizia del 27 settembre scorso della “restituzione forzata” operata dal Camerun di oltre 100mila rifugiati nigeriani. Lo afferma Human Rights Watch (HRW) in una nota ripresa anche dalla BBC, ma respinta da un portavoce del governo di Yaoundè.
Un provvedimento fortemente discutibile in quanto le persone “restituite” sarebbero state oggetto di violenza e torture non soltanto da parte della formazione terroristica nota come Boko Haram.
Nonostante dunque la recente affermazione del governo nigeriano di aver debellato definitivamente il gruppo terroristico, questa vicenda smentisce nei fatti la presa di posizione di Abuja.
In questi ultimi tre anni l’obiettivo principale del terrorismo di Boko Haram è stato quello di rendere impraticabili ed invivibili le aree sotto la giurisdizione di Nigeria, Niger, Ciad e Camerun, limitrofe al lago Chad. Un’offensiva che ha ingrossato la schiera delle popolazioni fuggitive.
Devastazioni, incendi, uccisioni sono continuati con tecniche diverse ed hanno costretto migliaia di persone a cercare rifugio nelle poche aree sicure della regione. Gli sfollati si scontrano quotidianamente con l’incapacità dei governi di gestire un fenomeno così complesso. Una situazione talmente critica da mettere in difficoltà anche le strutture più qualificate delle Nazioni Unite per la protezione dei rifugiati.
Per quanto riguarda invece la Libia, i dati diffusi dall’UNHCR sull’entità del problema dei profughi, resi noti dall’Alto Commissario Filippo Grandi, sono più che preoccupanti: “535mila persone da assistere e proteggere, tra le quali 226mila sfollati interni a seguito del conflitto, 267mila libici tornati alle loro case ma ancora in condizioni di vulnerabilità ed infine 42.834 rifugiati e richiedenti asilo registrati”.
E poi c’è il buco nero dei centri di detenzione: dall’inizio di quest’anno UNHCR e suoi partner hanno effettuato 658 visite, ma i dati non si conoscono ancora nel dettaglio a causa dell’elevato rischio di sequestro che ancora incombe sugli operatori delle strutture assistenziali internazionali. Una situazione che costringe le organizzazioni umanitarie ad operare dalla Tunisia, inficiando almeno in parte la loro azione di aiuto.
Questa è, dunque, la reale dimensione dei problemi che abbiamo di fronte sulla questione dei rifugiati e dei flussi migratori. Una questione che per essere risolta avrebbe bisogno di una rappresentatività politica libica stabile e pienamente riconosciuta. Un obiettivo purtroppo ancora lontano dall’essere raggiunto.
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::autore_::di Giorgio Castore::/autore_:: ::cck::2233::/cck::