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La crisi delle aziende cinesi

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Lo sfruttamento lavorativo da parte della Cina, secondo Amnesty International nel comparto minerario, come quello del cobalto si contano circa 100mila minatori improvvisati che scavano con strumenti rudimentali e senza alcuna misura di sicurezza.

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Mentre l’Europa si dimena da anni sul problema dell’Africa nella la lotta all’emigrazione clandestina senza soluzioni concrete, dall’estremo oriente la Cina sta trasformando proprio l’Africa nel suo giardino di casa.

Investimenti per centinaia di miliardi di dollari in pochi decenni hanno creato una colossale macchina economica che sfrutta, ciò che prima veniva imputato solo agli europei, le immense ricchezze del Continente.

A differenza però degli “odiati bianchi” che certamente sfruttavano quelle terre, ma allo stesso tempo portavano anche nuovi modelli agricoli, scuole, infrastruttura urbane e sanitarie, impianti industriali oltre la preparazione di personale qualificato, i cinesi invece sfruttano e basta.  

Amnesty International stima che solo nel comparto minerario, come quello del cobalto, un minerale pericoloso per la salute, ma indispensabile all’industria mondiale, siano occupati circa 100mila minatori improvvisati che scavano con strumenti rudimentali e senza alcuna misura di sicurezza, ma ad aggravare la situazione e renderla drammatica sono  almeno 40mila ragazzini, la cui età lavorativa parte dai sette anni, che lavorano a meno di 2 dollari al giorno per 12 ore, tutto sotto la supervisione attenta delle maestranze cinesi che certo non sono maestri di diritti umani, figuriamoci poi dei diritti dei lavoratori per di più stranieri.

Insomma, una macchina economica di sfruttamento inarrestabile? Non proprio.

Qualche crepa si comincia ad intravedere proprio nel rapporto con le popolazioni locali che vedono ormai i cinesi che loro chiamano i “bianchi”, come sfruttatori e i risultati cominciano a farsi sentire, specialmente in Sud Africa dove Pechino, dopo la fine dell’Apartheid, ha cominciato la sua penetrazioni nel continente.

Nonostante gli investimenti cinesi siano fatti più di ombre che di luce, una parte della popolazione africana ne ha risentito positivamente facendo nascere una nuova middle class la quale tende ad essere più esigente di un tempo e i fong kong, il termine che i sudafricani danno ai prodotti di infimo ordine cinese, non li accettano più, anzi spesso riescono a rilevare i negozi un tempo dei cinesi e gestirli in prima persona andando direttamente in Cina a comprare le merci

Fino a pochi anni fa, Johannesburg era il motore pulsante degli affari cinesi con i suoi 500 negozi che pullulavano di clienti, tanto che le scorte non bastavano mai e i camion li rifornivano senza interruzione 24 ore su 24.

Oggi gli stessi cinesi ammettono che la situazione appare completamente cambiata: è come se i clienti si fossero passati la parola di non entrare ad acquistare niente e i negozi del Dragone sono praticamente vuoti.

Una situazione che si riverbera un po’ in tutto il Paese per il mezzo milioni di cinesi, la più grossa comunità in Africa, che comincia a risentire in maniera drammatica della crisi.

La loro denuncia riguarda non solo il peggioramento economico e il mancato sviluppo, ma da qualche anno subiscono anche atteggiamenti sempre più xenofobi che stanno rendendo la vita di questa comunità sempre più precaria.

Sono aumentati furti ed assalti nei loro confronti che, al contrario del passato, oggi è sempre più disunita e molti cercano di tornare in patria o almeno potersi trasferire in altre parti del continente, ma non è facile.

Tanti di loro per aprire queste attività si sono indebitati fino al collo e con questa crisi non è certo facile ripagare i debiti e partire.

A segnare la crisi della comunità cinese c’è anche la nuova manodopera che ormai arriva dalle terre più povere della Cina, e non conosce una parola di inglese, a differenza della prima generazione, e non è certo un personale qualificato, elementi che insieme alla crisi economica e con una poca capacità di adattamento hanno portato in breve alla crisi del prosperoso commercio della Chinatown di Johannesburg.

Se pensiamo che appena all’inizio del 2000 erano stati avviati alla costruzione almeno 18 enormi centri commerciali cinesi tra Johannesburg, Durban e Città del Capo, chiamato anche il triangolo d’oro del commercio, senza contare i piccoli negozi sorti anche nelle township e nelle città di frontiera.

Sembrano passati secoli, molte di queste strutture si sono trasformate in luoghi fantasma con insegne all’esterno sbiadite dal tempo e pochi camion varcano ancora i cancelli corredati da fili spinati ed elettricità per evitare i furti delle merci.

I piccoli commercianti cinesi per anni sono stati l’apripista delle strategie geopolitiche di Pechino, incoraggiati, finanziati e protetti, oggi sono stati sostituiti dalle 300 imprese presenti in Sudafrica che operano però non più nel mondo delle merci di basso costo, ma nella finanza, nelle miniere, nella logistica e nelle telecomunicazioni per non parlare dell’apertura di basi militari, in questo contesto così articolato non sembra ci sia più posto per i piccoli commercianti che anzi vengono dimenticati  in favore del grande business finanziario.

Come nella leggenda del nostro dio Saturno, sempre più affamato e mai sazio anche il Dragone Rosso ha cominciato a mangiare i suoi figli.

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::autore_::di Antonello Cannarozzo::/autore_:: ::cck::2429::/cck::

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