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Scatta l’operazione “Ramoscello d’ulivo” che colpisce Afrin. Obiettivo di Ankara: rompere la continuità territoriale delle zone di influenza curda nel nord della Siria.
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Era da poco passata la mezzanotte del 23 gennaio, quando uno stormo di caccia dell’aviazione turca ha cominciato a sganciare bombe e razzi incendiari sull’enclave curda di Afrin, nel nord-ovest della Siria. Poco dopo decine di carri armati e mezzi corazzati dell’esercito della Mezzaluna, hanno attraversato il confine tra i due paesi. È stato l’inizio dell’operazione “Ramoscello d’ulivo” che, nelle intenzioni di Ankara, mira a spezzare la continuità territoriale sotto il controllo dei curdi nel nord della Siria. Un blitz ambizioso che, oltre a ledere il diritto internazionale, visto che si tratta esplicitamente di un deliberato attacco militare in un altro paese, rischia di compromettere la fragile pace che si stava istaurando in Siria dopo anni di guerra civile. Ma la partita che Ankara ha deciso di giocare, nonostante tutto, ha come obiettivo di regolare definitivamente le questioni ancora aperte con il popolo curdo e le sue formazioni paramilitari che, dopo la presa di Raqqa, sono diventate la potenza egemone in tutta la regione nord orientale siriana. Un’egemonia dovuta all’alleanza siglata con Washington che, dallo scorso anno, fornisce alle unità combattenti curde armamenti e supporto logistico, oltre a schierare sul campo addestratori e diverse unità di forze speciali. Appoggiare i combattenti curdi infatti è stata ritenuta dal Pentagono l’unica opzione praticabile per sradicare i jihadisti dello Stato Islamico dai santuari che si erano conquistati nel corso degli anni, oltre a contrastare l’influenza di Mosca nella regione. Proprio la Russia sembra avere avuto un ruolo chiave nella decisione della Turchia di invadere i territori curdi al confine tra i due paesi. Senza il benestare del Cremlino difficilmente Erdogan avrebbe intrapreso un’operazione di tali dimensioni, già costata la vita a diversi militari oltre a decine di civili residenti nell’area dei combattimenti. Il Presidente Putin ed il suo omologo di Ankara, dopo anni di incomprensioni, culminate con l’abbattimento del Sukhoy nel novembre del 2015 e l’uccisione dell’ambasciatore russo da parte di un poliziotto turco nel dicembre 2016, hanno deciso che nella partita siriana era meglio raggiungere un compromesso che potesse favorire i disegni strategici di entrambi i paesi: per il Cremlino mantenere la base aerea di Hmeymim e soprattutto quella navale di Tartus, mentre la Turchia vedrebbe riaffermare la propria influenza regionale dopo i contraccolpi della guerra civile. E la leadership di Damasco cosa ne pensa di queste incursioni nel suo territorio? Male, ma nonostante qualche protesta formale, il Presidente Assad si deve adeguare, consapevole che la propria sopravvivenza sul trono di Damasco dipende ancora completamente da Mosca. Diverso chiaramente il caso di Washington, il Presidente Trump infatti si trova di fronte alla scelta se accettare di buon grado l’incursione turca oppure se continuare a supportare le formazioni curde, le uniche che in questi anni di guerra civile abbiano effettivamente aiutato ad azzerare lo Stato Islamico. Un dilemma destinato a dipanarsi solo nel tempo, attendendo le evoluzioni sul campo di battaglia e soprattutto qualche passo falso da parte di uno dei contendenti.
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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::2438::/cck::