I primi passi della nuova legislatura vedono i leader misurarsi a distanza, come pugili che si preparano a salire sul ring o squadre che stanno per entrare nello stadio e che sbirciano i comportamenti altrui
Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, recita un antico detto che ci introduce alla riflessione di questa settimana a una decina di giorni dal voto politico che ha per così dire “rivoluzionato” il paese ponendo a cittadini elettori e a forze politiche da loro scelte interrogativi nuovi e interessanti su quel che potrebbe essere il domani per il governo della cosa pubblica e per la nostra stessa democrazia.
I primi passi della nuova legislatura vedono i leader misurarsi a distanza, senza contatti come pugili che si preparano a salire sul ring o squadre che stanno per entrare nello stadio e che sbirciano i comportamenti altrui alla ricerca di indicazioni di percorso. Affermazione che potrebbe sembrare contraddetta da vociare quotidiano, dalle affermazioni apodittiche, dai proclami, dall’assunzioni di comportamenti per così dire istituzionali, dismessi i panni di tribuni della plebe; o per converso, dall’interessarsi spasmodico per la sorte dell’avversario perdente o di quello più temibile perché anch’esso uscito da forti affermazioni. O ancora, il rincorrersi di esortazioni, di diktat a fare questo o a fare quello, in relazione ai propri interessi tendenti a vedersi riconoscere il ruolo di traino verso la governabilità. Insomma per ora abbiamo un dialogo tra sordi e al tempo stesso i cosiddetti sordi… del compare, ovvero quelli che fingono di non sentire e che al contrario ascoltano attentamente parole e discorsi altrui per trarne vantaggio.
Quale sarà l’approdo allora e, soprattutto, ci sarà? Non abbiamo e riteniamo di non poter avere capacità vaticinanti né tanto meno di essere aruspici, dunque dobbiamo attenerci a quei pochi fatti che sono davanti a noi, pur nella mutevolezza quotidiana.
Partiamo allora da chi ha vinto le elezioni ma non in modo da poter governare da solo. Abbiamo due “soggetti” politici: il movimento cinquestelle e il centrodestra a impronta leghista. In termini assoluti quest’ultimo ha la maggioranza relativa del parlamento e del paese pur essendo una coalizione di forze tra loro non omologabili. I grillini sono invece il maggior partito ma non hanno capacità (non le hanno avute sinora per meglio dire) di catalizzare altre forze avendo sempre rivendicato la loro diversità, specificità, distanza dai vecchi partiti.
Una camicia di forza che però mostra non poche crepe e che soprattutto si trasforma in arroganza ancorché frutto del timore di essere lasciati fuori dagli schemi futuri. Ecco perché il candidato premier Di Maio un giorno sì e un giorno pure, continua nell’alternare “offerte” collaborative alle sue condizioni a richiami istituzionali a dare un governo al paese di cui rivendica la responsabilità. Una posizione complessa che denota al di là della sicumera apparente la consapevolezza che da solo il movimento non và da nessuna parte. Paradossalmente il momento di maggior espansione si manifesta come quello di maggior difficoltà e a poco vale per ora la giravolta istituzionale, il presentarsi come responsabili e pronti a fare gli interessi dei cittadini. Pronti a dire sono gli altri che non ci fanno lavorare, è colpa degli altri se non riusciamo ad andare al governo che ci spetta perché siamo la prima forza politica in termini percentuali. Insomma, lo stantio e trito refrain che i sindaci a cinquestelle portano avanti da quasi due anni (escludendo il primo cittadino di Parma ex del movimento) mascherando con le colpe altrui il sostanziale immobilismo amministrativo: invece di affrontare il problema gli si gira intorno). Trasportare questo atteggiamento al governo del paese non appare molto confortante soprattutto se unito a scelte economiche e sociali certamente clamorose ma senza sostenibilità reale nelle risorse esistenti.
Accanto ai “nuovi” che avanzano, abbiamo il centrodestra che conosciamo ma che se guardato attentamente, mostra molteplici elementi di discontinuità con il suo stesso passato. Siamo sempre dinanzi alla Lega, a Forza Italia e alla destra ex An più o meno. Tuttavia si è compiuta una vera e propria metamorfosi. Non nel gruppo dirigente come potrebbe apparire ovvio, ma nell’area sociale di riferimento. L’Italia moderata di una volta ha rotto molti indugi e sta delineando un nuovo modo di esserlo. L’eclissi di Berlusconi è un dato storico, non soltanto il frutto di incandidabilità. Il centrodestra che si vuole vedere è fatto di maggior forza e minor diplomazia. Non necessariamente quella forza che piaceva tanto all’estrema sinistra dileggiare e contrastare. Piuttosto un atteggiamento diverso dinanzi ai problemi e alle questioni fatto di parole d’ordine di facile impatto, ma anche di indicazioni più strategiche del passato. La vittoria sostanziale di Salvini, l’estendersi del voto leghista in tutto il paese sono la riprova di questa mutazione impensabile sino a ieri. Anche il leader leghista rivendica il diritto a governare e ad essere la guida della coalizione e anche lui fissa paletti per evitare di essere fagocitato in logiche di sistema quali quelle che sembrano ancora presiedere all’atteggiamento di Forza Italia. La coalizione tuttavia esiste ed è maggioritaria in Parlamento e nel paese. Il futuro ci dirà se le contraddizioni interne saranno sopite e si capitalizzerà l’indubbio successo elettorale!
Per la sinistra e, soprattutto per il partito democratico, il momento dell’analisi e della comprensione della confitta si intrecciano con l’inevitabile necessità di essere parte del gioco politico in corso fatto di troppe variabili. Giusto il richiamo all’opposizione, non altrimenti si deve affrontare il diniego del paese, giusto cambiare guida dopo le dimissioni di Renzi. Altro però è ritrovare le ragioni della propria presenza nella società italiana e i riferimenti ai quali ancorare un’area progressista moderna della quale l’Italia ha sempre bisogno. Sbagliato il revanscismo di chi poco fa era minoranza e che nulla ha fatto in campagna elettorale per dare forza al messaggio del partito. Altrettanto errato pensare ora di dettar legge e stabilire che cosa si deve fare e con chi (vedi le sirene verso i grillini). Un bagno di umiltà è necessario ma non si può lasciare il paese privo di un riferimento forte e determinato. Staremo a vedere che cosa partorirà il confronto interno e quale futuro segretario incarnerà questo passaggio storico. Residuale e irrimediabilmente perdente l’esperienza di Liberi e uguali. Il popolo di sinistra tanto agognato e blandito non li ha votati e ha contribuito alla diaspora (partita anche dal Pd) verso i cinquestelle, intesa come protesta sonora contro dirigenti autoreferenziali ed arroganti. Il messaggio è partito forte e chiaro, vedremo in che modo sarà recepito!
di Roberto Mostarda