L’aspirante premier pentastellato parla ed agisce come se di fronte al Quirinale e agli altri non esistesse nessun altro: “siamo il maggiore partito” e abbiamo diritto a governare costi quel che costi.
Il riferimento al famoso e iconoclasta personaggio impersonato da Alberto Sordi non è certo casuale in questo momento di attesa e di sostanziale temporeggiamento sul fronte del nuovo governo. E lo è in due differenti accezioni. Da un lato quello ovvio al senso di impunità e superiorità del suddetto marchese – famiglio del pontefice – nei confronti del povero carbonaro e della plebe romana; dall’altro per la scontata osservazione dell’etero-direzione del candidato premier dei 5Stelle da parte dell’unico Grillo attualmente esistente su piazza.
Una duplicità che spiega molto di quel che sta accadendo nel confronto a distanza tra leader, spesso carico di incomprensioni e di difficoltà ad interpretare lo scenario. Scomodando un altro comico di qualche anno fa potremmo dire che sinora tra gli esponenti politici nazionali vige il concetto del “parlaimmo e nun ce capaimmo…”, ossia possiamo anche dialogare ma mettiamo in scena un confronto tra “sordi”.
Quella alla quale stiamo assistendo rischia di essere una fase a suo modo epocale e dirimente per il futuro. E rischia di essere l’ara sulla quale potrebbe consumarsi l’effimera centralità di Di Maio quale espressione istituzionale del movimento. Le cose, in politica, si muovono anche quando le consideriamo ferme ed i recenti appuntamenti elettorali regionali in Molise e Friuli Venezia Giulia, pur locali, hanno dato un segnale molto chiaro ed inequivocabile sul sentire degli italiani che hanno rafforzato la coalizione di centrodestra e dato risultati alterni non tutti confortanti a Pd e cinquestelle medesimi, ancora ebbri questi ultimi della sbornia della vittoria alle politiche.
Se per i democratici si è trattato di una conferma della sconfitta e per qualche verso dell’indicazione di come si possa resistere, per i seguaci del guru è stata invece una doccia fredda pesantissima, al di là dei sorrisi di circostanza e del “siamo il primo partito” e gli altri non sono… niente!
Ecco il punto cruciale. L’aspirante premier pentastellato parla ed agisce come se di fronte al Quirinale e agli altri non esistesse nessun altro fuorché lui. Lui indica cosa fare agli altri, lui chiede distacchi tra gli alleati avversari e contendenti, lui propone accordi e intese a tutti parlando di contratti e di accordi chiari anche su pochi punti. In sostanza, dall’ “adiamo a governare il paese” siamo arrivati al “qualcuno deve adeguarsi a noi e farci governare”. Non importa se questo qualcuno sia la Lega di Salvini o uno spezzone del Pd che abbia mandato in soffitta Renzi. Il mantra ineluttabile resta sempre il “siamo il maggiore partito” e abbiamo diritto a governare costi quel che costi. Altrimenti, sempre il Di Maio marchese pretende di andare al voto anche contro l’intento del presidente della Repubblica di non farlo troppo presto e soprattutto garantendo al paese stabilità interna e sul piano internazionale.
Manca un punto a questo assunto: il rispetto degli italiani che non hanno votato i cinquestelle, due terzi del totale, e degli stessi elettori del movimento che hanno espresso il loro gradimento ad alcune parole chiave e idee senza se e senza ma, trovandosi nella sindrome dei caminetti e dei conciliaboli nelle salette del retro di bar o ristoranti intorno al Parlamento. Cioè esattamente quello che un grillino doc aborre e vorrebbe spazzare via. Ma per farlo occorrerebbe essere maggioranza reale e assoluta nel paese. Un dato che non torna dunque. E dentro il movimento comincia a serpeggiare il malcontento e l’irritazione per i ritardi e riappare in filigrana la sembianza del guru. In questo quadro il “io sono io e voi non siete un…” risulta fuori quadro e del tutto disomogeneo nella necessità di una leadership che deve comporre e conciliare la realtà, non il vagheggiato mondo dei vaffa al potere!
In modo speculare ma non del tutto, la situazione si ripresenta nel Pd dove le sirene grilline sembrano attirare Franceschini, Orlando, Emiliano ed altri, pronti a tutto pur di scalzare l’ex segretario, anche a sostenere un esecutivo Di Maio con il mantra “mai con la destra”. Qui, accanto all’egocentrismo dell’ex leader, siamo in piena sindrome di autodistruzione come dimostra la poca chiarezza di Cuperlo che accusa come altri Renzi di aver perso, omettendo di rammentare che nessuno di costoro ha mosso un dito in campagna elettorale per far vincere il Pd e ha, anzi, flirtato con i fuoriusciti di LeU portando al reciproco pessimo risultato. Se direzione collegiale è il loro motto, sarebbe certo meglio che nessuno di loro ne facesse parte, per una questione di coerenza e in senso lato, di decenza!
Intanto, zitti zitti, piano piano, i tre/quattro partiti della coalizione di centrodestra crescono nei voti e nelle preferenze degli italiani, rafforzando la posizione di centralità politica, soprattutto di Salvini, con la quale fare i conti. Ed attendono al varco gli altri che in queste settimane ed ore si agitano in attesa delle nuove scelte del Colle.
E, quest’ultimo, scandisce senza fretta i tempi e i modi, negando la possibilità di andare al voto tra un mese o in autunno anche per rispetto al voto del 4 marzo e ora di quelli regionali, che chiedono responsabilità e sforzo di coniugazione politica per costruire un governo che possa governare. E dove tutti devono fare un passo indietro per senso istituzionale e consapevoli della responsabilità loro affidata. Altrimenti potremmo assistere alle più veloci meteore politiche della nostra storia repubblicana!
di Roberto Mostarda