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Governo tra diktat e dinieghi

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Giornate convulse e difficili nel tentativo di formare un nuovo governo italiano e il concreto rischio di derive anti Europa,  movimentiste ed antisistema

“Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”. In questa breve ma lapidaria frase di Aldo Moro, apparsa sui manifesti dc il giorno della sua morte, si sintetizza il vero blackout, il vero inceppamento del nostro sistema politico e costituzionale. Una frase di quarant’anni fa che sembra scaturita dall’oggi, dalla visione simile ad una maionese impazzita del nostro confronto politico e costituzionale.

Qualche settimana fa in piena consultazione nel dopo voto del 4 marzo, avevamo riflettuto sull’atteggiamento dei leader “vincitori” dinanzi alle indicazioni che sin da allora il capo dello Stato aveva affidato all’analisi e alle trattative tra le forze politiche. rispetto all’obiettivo di dare al paese un esecutivo stabile e rappresentativo della volontà degli elettori. I primi tentativi di avvicinamento tra il Movimento 5Stelle e la Lega e le parole d’ordine che apparivano capaci di creare un’intesa dialettica ma chiara, si manifestavano assolutamente eccentriche rispetto alla dinamica propria della prassi costituzionale. Avevamo allora parlato di eversione di governo,  ravvisando negli slogan e nel dibattito posizioni che mal si conciliavano con i ritmi e i passaggi previsti dalla Costituzione che a dispetto di qualunque attore politico, è sempre la stessa e non è stata modificata e deve costituire la tela sulla quale tessere l’attività politica, parlamentare e di un possibile governo.

Quello che è accaduto nelle giornate convulse e difficili che precedono queste riflessioni, ha seccamente e plasticamente confermato quanto ritenevamo a torto semplice esercizio stilistico e propagandistico e con esso il rischio di derive movimentiste ed antisistema. Le posizioni di 5Stelle e Lega si sono via via, ma non del tutto, omologate e hanno raggiunto il punto di non ritorno con l’indicazione di un premier non eletto – basta andarsi a rileggere le loro dichiarazioni sul tema nei mesi passati per capire quale contraddizione hanno messo in scena – condizionato sin dalle prime battute ad una lista dei ministri bloccata e non negoziabile nella quale il punto di forza avrebbe dovuto essere una persona certamente autorevole e di spessore politico ed economico ma dichiaratamente antieuro e anti Europa. Come a dire, intanto lo mettiamo lì così, quando andiamo a Bruxelles, alziamo la posta in gioco sino a minacciare sfracelli.

E’ in questa riserva mentale, in questo predisporsi che sta il nocciolo di quanto accaduto. Gioverà ricordare un esempio tra i tanti accaduti nel nostro paese ma per l’argomento certamente sensibile: quando gli italiani furono chiamati a votare contro il nucleare, non votarono in nessun modo la chiusura delle centrali come pensavano, bensì una moratoria cui doveva poi seguire una decisione politica sul mantenimento o meno dell’energia dall’atomo. La dilazione insita ci ha portato oggi a non sapere come smaltire il materiale fissile di risulta dopo lo smantellamento, per il cui stoccaggio paghiamo profumatamente da decenni la Francia e la Germania.

Oggi costituire un governo che, malgrado la ripetuta volontà di Salvini e Di Maio di agire all’interno delle istituzioni comuni, manifesta nel ganglio più importante una evidente scelta euroscettica e di rottura sul fronte della moneta unica, è qualcosa di non previsto e di non accettabile. Ed è questo il punto centrale dello scontro istituzionale che è esploso con la rinuncia di Giuseppe Conte, non un premier incaricato ma un semplice esecutore di indicazioni altrui alle quali ha dovuto fare riferimento esplicito nel momento di gettare la spugna definendosi in un primo tempo “avvocato del popolo” quasi a indicare le controparti nel sistema che andava a rappresentare!

La frattura apertasi a livello istituzionale è di inaudita gravità, come lo sono le affermazioni improvvide e queste sì “eversive” del leader pentastellato che quasi sentendosi investito di un mandato superiore prende in considerazione ipotesi di messa in stato di accusa del capo dello Stato che non sono né in cielo né in terra in un paese normale e soprattutto cozzano con le regole costituzionali vigenti. Proprio la vigenza di queste norme avrebbe dovuto informare l’atteggiamento suo e del leader leghista consentendo una dialettica con il Quirinale invece di arrivare con “tutti sostituibili meno quello” ad un muro contro muro, atteso che la Costituzione dà al premier incaricato il diritto di proporre i ministri e al presidente della Repubblica di nominarli: atto non notarile – lo aveva premesso Mattarella indicando il suo ruolo – ma concreto dovendo tenere in considerazione la compatibilità del futuro esecutivo con gli obblighi internazionali del paese e con la dinamica economica e finanziaria nonché la difesa dei cittadini italiani da bufere insostenibili. Limiti che il capo dello Stato non ha certamente valicato ed ai quali si è attenuto con rigore.

La scomposta reazione di Di Maio – e quelle ai limiti della minaccia personale al presidente apparsi sulla rete – sono una drammatica conferma del non detto ma assolutamente nelle intenzioni del capo politico del movimento. Reazione che ha visto il solo appoggio di Fratelli d’Italia e un comportamento molto più moderato e politico da parte di Salvini. Almeno sino ad ora.

Ora, la scelta del Quirinale di un governo tecnico che porti a nuove elezioni, possibilmente con una nuova legge elettorale, costringe tutti a posizionarsi e prendere in considerazione il dopo. Un dopo altamente critico nel quale movimentismo e derive populiste devono lasciare il passo ad una vera assunzione di responsabilità.

A parte il Pd, in continua crisi di identità, e Forza Italia alle prese con i propri problemi ormai storici e al netto delle posizioni apodittiche di Liberi e Uguali, il gioco ricadrà quasi certamente sul leader leghista che ha ottenuto tutto sommato il risultato di liberarsi le mani dai tentacoli grillini dovrà ora far capire a tutti se la coalizione di centrodestra è ancora viva e se può essere indicata come punto di riferimento in occasione di nuove elezioni. O se il trend elettorale leghista in ascesa costante cambierà definitivamente il quadro e rimescolerà nuovamente le carte.

Non è però il momento di stabilire chi ha colpa e di cosa. Con i capri espiatori non si va molto lontano ma si vellica solo ogni basso istinto. Bisogna accettare il sistema nel quale ci si trova e provare a modificarlo dall’interno con serietà e con argomenti chiari, fondati e convincenti. Se invece si vuole alzare il tono dello scontro, modificare nei fatti la Costituzione assumendo connotati giacobini, allora siamo totalmente in un’altra temperie con tutti i rischi che questo potrebbe comportare.

di Roberto Mostarda

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