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Il celebre cantautore e scrittore Francesco Guccini evoca magistralmente l’atmosfera goliardica dei bar nella provincia emiliana.
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Mi fanno ridere quelli che, per giocare a carte, si ritirano nei silenziosi anfratti di un Circolo del bridge e cose consimili, là dove i tavoli verdi sono davvero verdi, i portacenere servono solo per mettere la cenere, si sussurra di quattro fiori e tre picche e i camerieri scivolano via come pattinando sul ghiaccio reggendo vassoi colmi di flûte di champagne o di cocktail dai nomi esotici.
I portacenere dei bar che frequento io servono a tutto, a contenere preservativi usati, schedine del totocalcio fatte a pezzi, mezzi panini alla coppa di testa, meno che a tenere la cenere, che va buttata ostentatamente nel portacenere più grande, cioè per terra e la sigaretta la si appoggia ai bordi del tavolo, che deve essere costellato di macchie di bruciaticcio. Un avventore, tale Arditozzi Pasquale, che appoggiò la sigaretta nel portacenere dopo averla in esso leggermente scossa, fu immediatamente chiamato da tutti “Pasquale la checca” e finì i suoi giorni, dopo due tentativi di suicidio, in un convento in Moldavia.
I camerieri dei bar che frequento io si chiamano quasi tutti Fonso o Beppe (dove ho sentito questo nome?), hanno di solito baffi a manubrio che trattengono nicotine di sigarette fumate durante la guerra d’Africa, se chiedi un caffè ti portano un rabarbaro, devi discutere mezz’ora perché qui l’ho portato e se hai cambiato idea non è colpa mia, sono di solito ubriachi marci e sparano ogni cinque minuti bestemmioni da 105/22 (calibro di un famoso obice) che non servirebbero a vincere una gara con mulattieri toscani, ma li porterebbero sicuramente alle prime posizioni.
Nei bar che conosco io si gioca naturalmente a carte, ma non è facile giocare a carte nei bar che conosco io, anche se non si gioca a bridge. A cosa si gioca? A tutto il resto, naturalmente, e passando agevolmente dalle carte francesi a quelle italiane, tutto lo scibile cartaceo può essere sfoderato, comprese le minime varianti dello stesso gioco spesso molto diverso da bar a bar. Ad esempio nel bar Pistolazzi, si può giocare a “Piripicchio marzolino”, dove il fante di spade vale un punto, mentre a dieci metri, al bar Strapponi, si gioca a “E’ qui la festa?” identico, solo che il fante di spade vale mezzo punto e in campo neutro (sulla strada fra i due bar) possono accendersi discussioni che terminano spesso in feroci faide e disumani pogrom. Non creda quindi un qualsiasi facilone che il cartaceo ludo sia materia accessibile a tutti e che uno, passando per di lì, possa dire ingenuamente: “Vedo che c’è un posto libero, vi spiace se faccio il quarto?”
Uno dei giocatori, che darebbe via quanto di più sacro per poter fare una partita, avrebbe immediatamente un urgente impegno in Bessarabia, un altro accuserebbe improvvisi quanto lancinanti dolori allo stomaco, un terzo scuoterà mestamente il capo come a dire: “Vede lei stesso che, aaa ria sorte!, non è proprio umanamente possibile!”, e cose così.
Si richiedono invece, a chi desideri prima o poi partecipare, alcune cose fondamentali.
Anzitutto è bene sapere dire “sei fortunato”, ma in maniera oscena e in almeno cinque dialetti e due o tre lingue diverse; questo lo si impara frequentando questi bar per un po’ di tempo (diciamo che una mezz’ora e una discreta memoria possono bastare).
Comunque si sappia che un semplice “che culo!” viene considerato roba da Orsoline ed è meglio specializzarsi prima di scendere in campo e portare innovazioni e nuovi e audaci modi di dire. Questo ancora però non basta.
La cosa più importante è essere considerati bravi giocatori al bar. Non è naturalmente scienza infusa: si diventa così frequentando assiduamente i bar e mettendosi, nei tavoli cosiddetti di serie A, alle spalle dei Maestri, di cui bisognerà cattivarsi la simpatia con commenti stupiti sulla loro valentia e la loro memoria, ridere al momento giusto quando questi dicono una battuta, fingersi dolorosamente stupiti del culo degli avversari eccetera. Poi, con altri tre aspiranti della massima serie, giocare assiduamente in tavoli di serie B. Prima o poi qualcuno della serie A mancherà per la partita (può essere utile provocare nascostamente qualche lieve incidente) e allora i giocatori sospireranno, prenderanno tempo, uno farà un solitario, poi la voglia di giocare prenderà il sopravvento e può darsi che vi chiamino. Diciamo che dopo un dieci quindici anni di attesa il miracolo può accadere e sarete chiamati a giocare la prima vera partita della vostra vita.
Ci sono in verità altri giocatori, quelli che si ritengono Maestri di Gioco. Perché lo siano diventati è mistero che sfugge ai più, compreso il sottoscritto. L’importante è che si considerino e siano considerati tali, e cioè superiori in tutto a ogni comune mortale. Il M.d.G. disdegna ormai di scendere direttamente in campo, tolte rarissime volte in cui se vince è lapalissiano e se perde è per manifesta inferiorità del compagno che viene a lungo pittorescamente rimbrottato. Il M.d.G. veleggia per il bar con aria distratta, poi si pone indifferente nella classica posizione angolare sloggiando al solo apparire alcuni aspiranti di serie B, apre ostentatamente la Gazzetta dello Sport, si immerge nella lettura infine, piegando il giornale, urla: “Nooo, non il cavallo!, oppure: “Sei proprio un coglione! Se giocavi il sette franco lui doveva calare il fante l’altro ti dava il tre e dieci e due dodici, vincevate la partita!”, il che, vedendo contemporaneamente le carte dei quattro giocatori risulta spesso vero, aumentando la già eccelsa fama del M.d.G.
Ricordo uno di questi, particolarmente ferrato in tutta la sapienza cartacea, e che chiameremo per comodità Argo. Non si dava, come detto, quasi mai direttamente al gioco, giudicando tutti quelli che passavano di lì semplici “apprendisti dilettanti”, ma non perdeva una partita dall’angolo, commentando con urla disumane di disapprovazione ogni minima fase. Un giorno, particolarmente provati da tali esperienze, quando lo vedemmo arrivare, durante una partita nacque l’idea:
“Inventiamo un gioco!”, ci dicemmo. “Un gioco di assoluta fantasia. Vedremo se avrà il coraggio di commentare anche questo”.
Ci preparammo alla bisogna. Argo arrivò, salutò, e assunse la classica posizione angolare, pronto all’intervento. Ma noi eravamo pronti.
Il cartaio mescolò, fece alzare, e cominciò a distribuire le carte secondo l’estro: diede due carte al primo di mano, tre al secondo di cui una scoperta, tre scoperte al terzo e si diede due carte. Una, dopo averla vistosamente guardata, se la mise in tasca. Argo non resistette.
“Perché ti sei messo in tasca una carta?”, chiese.
“È per l’eventuale promizio”, rispose il cartaio.
Argo tacque, pensoso.
“Ma che gioco è?”, chiese timidamente.
“Il farfa sgalbedrato”, rispose il cartaio.
“Si’, sgalbedrato le palle, con le cartacce che mi hai dato!”, urlò uno.
Gli altri guardavano meditabondi.
Si cominciò. Il primo calò un re.
“Mìngolo il re di sette”, gridò il secondo gioioso “segna tre punti!”.
Si commentò ampiamente del suo culo, e solo alla prima mano, anche se, notò il mìngolatore, in fondo trattavasi di un mìngolo semplice e non sgalbedrato. Il secondo calò un asso:
“Cavallo!”, disse.
Il cartaio calò un cavallo:
“Ripuffo”, osservò e diede di nuovo una mano alle carte, in maniera ancora assolutamente fantasiosa. Si calarono alcune carte a casaccio, senza commenti. Quando il secondo di mano calò un re di denari, il terzo lo coprì con una carta e gridò:
“Castrono il re”.
E allora il cartaio estrasse la carta che aveva in tasca e disse:
“Controcastrono”.
Gli avversari fecero il gesto di gettare le carte in tavola, che un culo così non l’avevano mai visto.
“Dai dai, giocate, che la partita non è finita!”, commentò benevolo il cartaio.
Altra mano di carte e ci furono alcuni spunti degni di nota, tra cui un “Marzapicchio rustican!” gridato ferocemente da quello che era stato controcastronato pigliando su tutte le carte in tavola, che stupì anche noi. Argo, visibilmente colpito, taceva.
È che noi contavamo, alla vista di un gioco assolutamente sconosciuto, sulla sua rapida dipartita, che ci avrebbe permesso di continuare in una sana briscola o in un normale tressette, ma non avevamo fatto i conti sulla ferrea determinazione del perfetto angolare. Argo non si muoveva e noi, alla quarta partita inventata, cominciammo a perdere di lucidità e a reiterare le invenzioni, cosicché i ‘ripuffo’, gli ‘sgalbedrato’, i ‘mìngolo’, tolto un apprezzabile ‘ti sbavo il quattro’ e un ‘prepuzio la regina’ cominciarono penosamente a ripetersi e a farsi ciclici. Fu all’ennesimo ‘castrono il tuo re’, che avvenne il capolavoro. Argo, fino a quel momento in pensoso silenzio, mise una mano sul petto del castronatore e gli urlò:
“Ma come si fa a giocare cosi’? Non aveva appena sgalbedrato la regina, lui? Allora?! Allora se aspettavi il sette, che non era ancora sceso, potevi ripuffare il suo asso e facevi venti punti di mìngolo e sette di sgnaffo, così fai solo i tre del castrono e van fuori loro. Capito, apprendisti dilettanti?!”.
Si alzò, e se ne andò, inseguito dalla sempiterna ammirazione di tutti quelli del bar”.
Il racconto fa parte della raccolta “La legge del bar e altre comiche” ed. Mondadori 2009.
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