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Ma chi era in realtà Victor Kravchenko che metteva in crisi le certezze del comunismo, era attendibile per denunciare i delitti dell’Unione Sovietica durante la dittatura di Stalin?
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Se oggi qualcuno domanda chi era Victor Kravchenko, probabilmente la risposta sarebbe il più assordante silenzio oppure come don Abbondio nei ‘Promessi Sposi’ di Manzoni quando si pose la domanda: “Carneade, chi era costui?”.
Eppure Kravchenko, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, fu un vero e proprio shock per il mondo Occidentale e una deflagrazione atomica sulle certezze del sistema sovietico.
Tutto questo scalpore si ebbe nel 1946 con la pubblicazione negli Usa del libro “Ho scelto la libertà”, una autobiografia scritta appunto da Victor Kravchenko, esponente di spicco fino ad allora della nomenklatura sovietica, ma una volta raggiunta l’America per un viaggio di lavoro non esitò a chiedere asilo politico, facendo conoscere al mondo tutte le sue atrocità del regime da cui era scappato contro ogni forma di libertà.
Ma chi era in realtà questo personaggio che metteva in crisi le certezze del comunismo, era attendibile per denunciare i delitti dell’Unione Sovietica durante la dittatura di Stalin?
Decisamente la risposta è sì.
Kravchenko aveva scalato tutti i gradini del potere arrivando a dirigere grandi impianti industriali con successo e sostenendo incarichi delicati per quanto riguardava rapporti con le imprese occidentali. Ma la vera formazione l’ebbe come giovane funzionario di partito quando fu incaricato, insieme ad altri, per realizzare la collettivizzazione delle campagne ucraine ad ogni costo, piegando la riluttanza della popolazione in maggioranza contadini.
Fu una vera operazione criminale ottenuta massacrando non solo la popolazione, ma tutto ciò che ancora poteva funzionare nei campi attraverso quelle che saranno chiamate le ‘grandi purghe’ con lo scopo di far comprendere, anche ai più riottosi, chi ormai comandava a Mosca e per questo l’ordine era di non permettere alcuna ribellione, pena la morte. E la promessa fu mantenuta nella maniera più vile.
Un vero sterminio di cui si parla ancora poco o nulla, ma che costò la vita a non meno di venti milioni di persone tra cui molti bambini lasciati morire letteralmente di fame. Ciò che il mondo democratico veniva a conoscere con questo libro era qualcosa che superava ogni più cruda fantasia. Il sistema sovietico aveva, è proprio il caso di dire, creato per questi poveri disgraziati un vero inferno in terra, provocando addirittura in modo artificiale carestie con la distruzione di raccolti e di semine per portarli alla fame insieme a malattie di ogni genere e convincerli della “bontà” del loro progetto.
L’ordine da Mosca era perentorio: “Strappate il frumento a quella gente – leggiamo nel libro – dovunque sia nascosto, nelle stufe, sotto i letti, nelle cantine o nei nascondigli scavati nelle aie. Non abbiate paura di ricorrere a misure estreme”
La fame insieme a malattie e disperazione portò questi infelici addirittura alla pazzia del cannibalismo, da cui nacque lo slogan negli anni successivi sui comunisti che mangiavano i bambini. Nelle campagne, la gente era come inebetita da tanta crudeltà, parlava ormai solo di fame, di epidemie e come abbiamo accennato di cannibalismo. Le carceri erano stracolme di contadini con l’accusa aver sabotato lo Stato essendosi appropriati di poche spighe di grano o di frutta ormai marcia pur di mangiare qualcosa e nel libro, con grande lucidità, vengono riferiti episodi di grande efferatezza.
Lui stesso, racconta, quando si trovava a camminare per i villaggi ormai avvolti da un silenzio estremo, non una voce, non un muggito o un latrare di cane; tutto era stato mangiato per la fame anche cani, gatti, topi, rospi e serpenti e incontrando un contadino questi gli dice: “Domattina quando farà giorno vedrete che gli alberi non hanno più corteccia: abbiamo mangiato anche quella e perfino il letame dei cavalli”, ma ormai non c’era più nulla, si sentiva solo il rumore dei carri che portavano via i cadaveri.
Dopo due anni di crudeltà indicibili, il segretario del partito comunista ucraino affermava con orgoglio: “L’anno appena finito ci ha permesso di dare la misura della nostra forza. È stata necessaria una carestia per far comprendere ai contadini chi comanda in questo Paese. La collettivizzazione è costata milioni di vite, ma ora è saldamente radicata”, ricordando ciò che duemila anni prima aveva scritto Tacito a proposito delle guerre in Britannia:” Dove hanno fatto il deserto, lo chiamano pace”.
Le pagine del libro ‘Ho scelto la libertà’ furono un vero e proprio insulto alle certezze di molti che in Occidente vedevano in Stalin come il “Piccolo padre”, ma come si dice non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Così tutti partiti comunisti in Europa, vera cinghia di trasmissione del regime di Mosca, da quello italiano a quello francese o tedesco collegati tra loro da veri organismi internazionali andarono in difesa della loro ‘Terra Santa’, l’Unione Sovietica, con le solite armi del discredito verso l’autore, accusato delle peggiori nefandezze e servo dell’immancabile complotto imperialista da cui era nato questo cumulo di bugie arrivando anche a processi che in nostro autore vinse in maniera esemplare.
Ciò che capitò a Kravenko negli anni che seguirono capitò a molti dissidenti russi i quali avevano avuto l’impudenza di criticare la via del comunismo. Il caso letterario che fece certamente più clamore fu l’uscita in clandestinità del libro del futuro premio Nobel Alexander Solzenicyn nel 1973, “Arcipelago Gulag”.
Il libro forse più drammatico sulle persecuzione staliniane dei dissidenti e la loro incarcerazione in Siberia, ma come quasi trent’anni prima era accaduto per Kravenko, fu anche questo libro sui gulag una vera doccia fredda per chi vedeva ancora nell’Unione Sovietica un faro di progresso, ma anche in questo caso, come allora, la prima reazione fu durissima da parte dei comunisti non solo del Patto di Varsavia, ma soprattutto di quelli occidentali che gridarono con una collaudata propaganda al solito complotto contro l’Unione Sovietica.
Solzenicyn era diventato ormai ingombrante in patria, farlo fuori vista la notorietà mondiale non era possibile si trovò la scusa che essendosi recato in Svizzera per alcune conferenze il governo sovietico approfittò della sua lontananza per condannarlo all’esilio e, purtroppo, con il plauso dei partiti comunisti fratelli nelle varie nazioni europee.
In Italia, tanto per ricordare quegli anni, Giorgio Napolitano, alloramembro della Direzione del PCI e responsabile della Commissione culturale, affermava in un articolo sull’Unità, uscito il 20 febbraio del 1974, che aver cacciato lo scrittore dissidente era la soluzione migliore per il governo sovietico e accusando l’Occidente di avere ben altri problemi arrivando a concludere: “E’ questa la scelta reale che sta davanti a tutte le forze democratiche e che per noi comunisti italiani fa tutt’uno con la prospettiva del socialismo, quale lo concepiamo e lo vogliamo per il nostro paese”, ma erano altri tempi.
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::autore_::di Antonello Cannarozzo::/autore_:: ::cck::3004::/cck::