Conte ha definito un’ossessione l’attenzione mediatica e non solo sulla questione più esplosiva del rapporto tra i contraenti governativi, ossia quella della linea ad alta velocità Torino-Lione.
Il premier araba fenice del governo gialloverde nel suo apparire per così dire carsico, ora sì, ora no, mostra sempre più nelle sue spericolate evoluzioni, la vera sostanza dell’esecutivo e dei partiti e movimenti che lo sostengono e quello che può essere considerato il limite intrinseco, il baco che corrode l’alleanza dall’interno. In quella che possiamo considerare tra le ultime significative sue uscite, peraltro “gratificando” come sempre i giornalisti, ha definito un’ossessione l’attenzione mediatica e non solo sulla questione più esplosiva del rapporto tra i contraenti governativi, ossia quella della linea ad alta velocità Torino-Lione tratta internazionale legata al corridoio europeo di passeggeri e merci previsto nei trattati e negli accordi tra i partners interessati alle diverse tratte.
Vanno a questo punto sottolineate due cose: i giornalisti descrivono e osservano quello che nella dialettica nazionale, politica e governativa, desta maggior frizione, e in questo momento la Tav è certamente una di quelle. Secondo, la questione costituisce uno spartiacque critico tra 5Stelle e Lega e divide anche il paese e non nel modo che spererebbero Grillo e compagnia. E’ ovvio considerare che la Tav in sé non è che uno nemmeno dei più gravosi impegni per le infrastrutture alle quali il paese deve far fronte ma, per una sorta di valore intriseco e contraddittorio, è elemento detonante di una evidente discrasia che attraversa il movimento grillino e che lo sta conducendo ad un evidente ridimensionamento che non è certamente né colpa della Lega, né di altro attore politico nazionale ma potremmo dire è “in re ipsa”, ossia nelle cose e nelle loro conseguenze.
Il guru garante, ora declassato ed escluso dai fondatori (tra i quali a garanzia di un futuro non politico è entrato il vice premier Di Maio) ha delineato per anni l’universo al quale il movimento deve attenersi, quello della decrescita felice – per capirsi quello dell’Ilva trasformata in parchi e giardini dove evidentemente dovrebbero oziare senza soldi diecimila operai tra diretto ed indotto e gravitare la città di Taranto ridotta a luna park- e in questo quadro molte cose non esistono.
Tra le cose che non esistono in un paese che si ripiega su se stesso, ci sono come è palmare le infrastrutture. Lapidario a questo proposito il ministro ad esse dedicato che se ne è uscito con un “ma che ci si va a fare da Torino a Lione”. Affermazione che non meriterebbe neppure una risata o un commento sprezzante, ma soltanto un gelido silenzio, se non fosse la spia di una concezione assolutamente priva di senso che il movimento ha fatto immaginare ai cittadini per poi restituirgli un esecutivo dove la questione poltrone sembra uscita dal famoso “manuale Cencelli” che ci riporta ai primordi della Prima Repubblica.
Ecco allora che la Tav rileva perché costituisce non il pallino di industriali e investitori, corruttori e tangentari, ma piuttosto il limite stesso della visione grillina. Ossia la incapacità manifesta sottolineata dallo stesso guru, di misurarsi con la realtà del governo di un paese che si pretende avanzato, interconnesso e via dicendo, salvo tagliare le connessioni stesse che lo possono mantenere nel novero di quelli più sviluppati e alla guida del mondo. Un circonvoluzione suicida e dannosa per il Paese.
E questo perché Tav o non Tav, Tap o non Tap, Ilva o non Ilva, l’Italia ha bisogno di una strategia industriale due,tre, quattro e persino cinque punto zero, di una serie di scelte prospettiche che sembrano latitare completamente. Il nodo emerso per il reddito di cittadinanza, il dimezzamento dei cosiddetti navigator (lavoratori precari che dovrebbero garantire l’accesso al lavoro di altri precari) nonché la lenta avanzata dei richiedenti quasi che gli italiani annusino il bluff, fa chiaramente capire dove è l’asticella complessiva. Se poi aggiungiamo strumentali analisi costi benefici che sembrano usciti dalla manzoniana penna dell’azzeccagarbugli e che vengono smentite da semplici precisazioni sui dati e da altre amenità dei suoi artefici, allora il quadro si fa fosco e appare come un patchwork senza capo nè coda e neppure molto originale.
Il ridimensionamento del movimento a livello elettorale, certo non ineluttabile né scontato, deriva però dall’incapacità di rappresentare il paese reale e non quello vagheggiato dai guru originari. Le scelte che si vorrebbero fare perché inserite nel contratto di governo – che nessuno ha mai veramente conosciuto e che sembra una cornucopia senza fine dove tutto è presente ed è stato previsto e quel che è peggio si ritiene concordato tra le parti – appaiono e sono scoordinate, non ancorate alle reali esigenze del paese, non di potenti, ricchi e industriali, ma di quel popolo per il quale si blatera e al quale si vorrebbe ammannire una sorta di bengodi che appare triste, scontato e senza vita.
Non di solo bengodi però vive l’uomo, potremmo rispondere quasi profeticamente, perché le scelte che contano, quelle cioè che devono incidere sulla vita dei cittadini e migliorarne le condizioni, richiedono chiarezza, strategia, visione a medio e lungo termine e non miope tirare a campare per salvare la sedia a qualche esponente che ha dimostrato nei fatti di non avere la virtù di un politico vero e saggio: la lungimiranza! Volutamente nessun nome perché le lente di analisi si attaglia perfettamente a quasi tutti i responsabili del movimento presenti nelle istituzioni. Tempi duri per il nostro paese!
A fronte di questo sconnesso panorama la durezza della Lega e del suo leader che pur con qualche “ammaccattura” sembrano interpretare meglio aspirazioni e esigenze del paese, pur non scevri da limiti personali e politici. E ancor più chiaro come sia in atto un braccio di ferro, fatto anche di colpi bassi o di minacce, nelle segrete stanze dove appare e scompare l’araba fenice che dovrebbe garantire il cammino unito dell’esecutivo!
di Roberto Mostarda