La parola della settimana
Il vocabolo di questa settimana al di là dell’etimologia e del significato letterale identifica una situazione o una condizione che accompagna la vita umana in ogni suo passaggio. Esiste nel proprio cammino una serie di punti obbligati al cospetto dei quali si pongono domande, interrogativi che richiedono di sciogliere, di scegliere, di decidere.
Parliamo di dilemma. Una parola composta che discende dal latino e in identica forma dal greco. In latino, la grafia è la stessa, in greco δίλημμα risulta composta da termine “di” che indica il due e λῆμμα che vuol dire premessa e che discende da un verbo che tradotto in italiano vuol dire “prendere”. Dunque si comincia ad individuare il tema: due premesse, due strade, due possibilità, due scelte, e via dicendo.
Seguendo il dizionario si tratta di una forma di argomentazione, nella quale si stabilisce, in generale, un’alternativa tra due ipotesi (dette anche corni del dilemma, espressione dalla quale discende anche quella di dilemma cornuto, proprio in riferimento alla doppia possibilità insita) da ciascuna delle quali deriva la conseguenza, affermativa o negativa, che si vuol dimostrare: proporre, risolvere un dilemma.
Con significato estensivo, si descrive anche l’alternativa, la necessità di scelta tra due contrastanti soluzioni quando ogni altra via d’uscita sia esclusa. Ricordiamo allora le possibili espressioni di uso comune. Porre una persona di fronte ad un dilemma, trovarsi dinanzi ad un dilemma, risolvere l’atroce dilemma, dove l’atrocità letteralmente spiega la complessità, difficoltà e anche sofferenza che può costituire lo stato d’animo di chi si trova di fonte ad esso.
Da tempo la situazione politica nazionale sembra un cumulo, un assommarsi di dilemmi. Scelte contingenti, scelte strategiche, opportunità, necessità si avvolgono e riavvolgono su se stesse dando quasi la sensazione che nulla sia possibile risolvere neppure prendendo una o l’altra strada. Condizione che sembra caratterizzare la classe politica italiana in senso ampio, ma che esprime anche lo status nel quale il paese si trova ormai da troppi decenni nei quali le questioni sono state eluse, i problemi lambiti, le scelte rimandate troppe volte. Il risultato è quello di un paese fermo, ripiegato su se stesso, quasi che nulla sia possibile fare per invertire la rotta e riprovare a camminare. La condizione umana degli italiani, chi più che meno, non giustifica il vuoto della politica, l’assenza di progettualità, di visione complessiva, di idea di paese. Il tessuto sociale è percorso da fiumi carsici, da violenti scossoni, da rigurgiti della peggior natura che nella cronaca quotidiana assumono connotati sempre diversi e più gravi ma ai quali sembra quasi essersi creata un’assuefazione pericolosa e relativista.
Certo la fine delle ideologie, la crisi della religiosità, lo stato di sofferenza della famiglia, un tempo nucleo centrale di base, ma anche delle forme associative che hanno accompagnato gran parte della storia del dopoguerra, hanno indubbiamente il loro peso soprattutto perché costituiscono altrettanti nodi strutturali da affrontare e possibilmente sciogliere in direzione positiva, ma appare evidente che il nocciolo duro, la questione delle questioni, sia speculare e centrata sull’incapacità di ritorno per così dire, di avviare forme di sintesi, di ricreare il contesto nel quale disegnare un futuro meno parcellizzato, complesso ed estenuante. Unica strada obbligata per mantenere l’unità nazionale ma non in senso geografico quanto in senso umano, sociale, rappresentativo e politico.
La confusione sociale, le spinte nichiliste della gioventù sono il contraltare dell’abdicazione da parte della politica di una ricerca delle risposte di sistema e del ripiegamento su forme partigiane, particolari, senza connessione e senza futuro. La summa di questa deriva è certamente stata l’infausta espressione del guru pentastellato della decrescita felice. Ovvero l’esaltazione del ripiegamento su se stessi, della redistribuzione di quel che c’é senza più produrre ricchezza per tutti; della rinuncia soprattutto rivolti ai giovani alla possibilità di ricostruire e rafforzare le basi del vivere sociale, il tessuto democratico, il rispetto dei diritti reciproci. Il moloch dell’uno vale uno che poteva in ipotesi apparire come rivincita dell’individuo è stata declinato invece nel peggiore dei modi in un nessuno può fare nulla. Un vulnus micidiale, un autogol dell’ex comico spaccatutto che ha avuto un unico “merito”: colpire nel segno delle debolezze nazionali, farle esplodere o tentare di farlo a furia di vaffa e poi lasciare che gli italiani se la sbrighino da soli.
Un capolavoro al contrario che ha soltanto vellicato l’innato egoismo italico, soffiato sull’autoesaltazione di ognuno: siamo un popolo di politici, economisti, amministratori come anche di tecnici sportivi ognuno con una visione diversa dagli altri e gelosi di averla. Con la conseguenza di una rassegnazione a non cercare la comprensione, la sintesi, l’intesa su un progetto comune. In questo vuoto pneumatico si sono innestate correnti e tossine di natura razzista, xenofoba, individualistica sempre presenti ma che hanno trovato sfogo in scelte politiche sempre più eccentriche e lontane dall’equilibrio necessario. Così ad ogni governo si agisce come Penelope che disfaceva la tela di notte in attesa di Ulisse, si mettono in campo riforme epocali che l’esecutivo diverso smonta a e sminuzza, o ancora manovre che girano intorno al problema e affrontano questioni periferiche, transitorie e legate all’emergenza, un emergenza che non finisce mai ma che alimenta se stessa come mostra in modo evidente l’incapacità di contenere il debito pubblico. Il fondo non sembra arrivare mai e con esso tarda anche quel salutare ma necessario rimbalzo che potrebbe derivare dal toccarlo finalmente e darsi una spinta verso l’alto!
di Roberto Mostarda