È arrivata la pandemia, ci ha presi in contropiede, noi, una generazione che pensava di avere il proprio destino in mano a colpi di carte di credito. Di professione chef, sono una persona che pensa molto alla soluzione di problemi, anche a quelli non ancora sorti. Eccomi quindi con un impiego nella scuola, alcuni lavori extra come consulente o docente in corsi privati per arrotondare e potermi permettere alcuni “vizi” (il volo in aliante è un’attività che dà dipendenza); e se poi in Italia buttasse proprio male, ci sono pedine piazzate in altri paesi, dove posso praticare il mio mestiere.
Tutto ad un tratto, il lock down globale, tutti in casa. Un colpo che la mia categoria ha accusato in modo particolare a causa di un evento che nessuno aveva previsto, e che sembra nessuno possa fermare. Ci si chiede quando finirà. Per una popolazione viziata dalla realtà virtuale è disorientante: sullo smart phone non ci sono app idonee a porvi rimedio; il web come al solito fornisce ad ognuno la risposta che preferisce; in televisione e sulla stampa si trova una colata piroclastica di notizie da ogni fonte e per tutti i gusti, che danno adito ad ogni tipo di polemica e di contraddizione.
Ma ciò che più urta è che non si sa a chi dare la colpa. Molte mie certezze sono venute meno, devo cambiare il mio modo di vedere le cose. Se prima credevo fosse impossibile rimanere senza lavoro per un cuoco (non mi piace farmi chiamare chef), ora vedo che non posso più organizzare eventi o prendervi parte; i locali che chiedevano la mia consulenza ora sono chiusi; prima, per deformazione professionale, vedevo in ogni situazione una possibile occasione per un nuovo lavoro; ora tutti i parametri sono cambiati e mi trovo come un adolescente a cercare riferimenti che non riesco a scorgere.
Lavorando con studenti dai 15 ai 20 anni non posso che notare in loro questo disorientamento; il tutto accentuato da una percezione deviata della realtà. Di fronte ad un problema, la reazione che noto in molti di loro è quella di prendere atto del problema stesso, ma non reagire in alcun modo, come se alla soluzione dovesse pensarci qualcun altro. Riporto un esempio molto elementare: qualche tempo fa, insegnando cucina a studenti del quarto anno, quindi giovani di 17/18 anni, notai tre allievi con una padella sul fornello il cui contenuto stava bruciando. Le soluzioni in quel caso erano tre, abbassare il fuoco, spegnere il fuoco, togliere la padella dal fornello. Purtroppo l’unica reazione constatata in loro fu quella di guardarmi immobili e con il sorriso dirmi: “brucia”. I tre giovani (due ragazze ed un ragazzo) erano comunque dei buoni studenti con ottimi voti. Rimasi turbato da un simile atteggiamento; come quello di chi vede qualcosa in tv o al cinema; lo si vede ma non è reale, e se lo è, non è possibile porvi rimedio. Di fronte a qualsiasi evento non viene analizzata la situazione per capire se è possibile intervenire e in quale maniera; si fa da spettatori; casomai riprendendo con il telefonino per poter poi condividere l’esperienza.
Lo trovo triste ma credo che sia ciò che abbiamo seminato. Lo smartphone tiene buoni i bambini al ristorante, può essere un ottimo mezzo di ricerca, avvicina le persone più lontane, ma credo possa essere anche considerato al pari di una droga. A generazioni web-dipendenti è possibile propinare informazioni di qualsiasi genere, vere o false, e creare una conseguente coscienza con valori virtuali. Negli ultimi anni credo una parte di popolazione si sia creata una “bolla di verità”, dal web è possibile avere conferma ad ogni nostro pensiero.
Purtroppo molti non tengono più conto delle nozioni ricevute; se sono gradite vengono fatte proprie, altrimenti vengono rifiutate; si cambia pagina. Sul web è possibile farlo, ci si mette sempre meno in discussione, non si valutano i punti di vista altrui e credo che questo impedisca di crescere. Fortunatamente credo che “il popolo delle bolle” sia solo una minoranza, ma non ne sono così sicuro…