Il Paese non merita la deriva di una politica senz’anima
Berlino sta male, Madrid è in confusione, Parigi arranca, ma anche Roma potremmo dire non sta messa molto bene. E’ un quadro iperbolico certo, ma estremamente calzante del periodo che attraversa il nostro paese a confronto con gli altri maggiori partner europei. Nel vecchio continente nessun paese sembra potersi permettere dilazioni o perdite di tempo sui temi fondamentali. La fibrillazione politica e soprattutto sociale, però, è l’elemento che ci vede sullo stesso piano degli altri, Ma è l’unico, così come unica è la nostra condizione finanziaria e debitoria pubblica.
Quindi nessuna consolazione e nessuna possibilità di riposare sugli allori del mal comune mezzo gaudio. La palla al piede del nostro paese è, resta e non accenna a lasciare il ruolo, l’assenza strutturale di un sistema stato. E in una realtà come quella europea questo rappresenta il peso peggiore. Tutti i nostri partner sono alle prese con una crisi interna di identità e di mancato sviluppo di aree che restano depresse, ma solo noi abbiamo in primis il Mezzogiorno e altre zone che non decollano e rendono vana ogni azione di vera crescita. La responsabilità non è soltanto locale, non è soltanto culturale e sociale, ma è soprattutto l’assenza di un riferimento statuale vero.
La riforma degli enti locali, le Regioni, che avrebbero dovuto essere motore di sviluppo hanno soltanto moltiplicato la stessa logica assistenzialista che era dello Stato centrale ed oggi che tutto questo è diventato insostenibile sono il primo fattore di difficoltà nella ricerca di un sistema comune, articolato certo, rispettoso delle particolarità certo ancor di più, ma non fino a negare l’esistenza stessa dell’appartenenza allo stato. E non per spinte separatiste come accade in altre nazioni, ma molto più semplicemente per una resistenza suicida a condividere a livello nazionale le crisi, i problemi che la dimensione locale non può affrontare con speranza di soluzione. Lo Stato in questa lettura non deve essere opprimente, esattore, e così via, ma motore di sviluppo, affiancare gli sforzi locali, non moltiplicare le inefficienze ma contribuire a superarle. Lo stato delle cose e le difficoltà di governo e prima ancora di avere un governo che convinca, sono lì a dimostrare l’assunto dal quale si è partiti.
Assistere al balbettio della politica locale e di quella nazionale su vicende come Ilva o Alitalia, all’incapacità di delineare un futuro comprensibile per settori vitali per un paese manifatturiero e turistico come il nostro, rimanere estranei a correnti in piena ascesa in settori strategici e per di più immaginare un paese che viva serenamente il suo declino uscendo da tutto quanto garantisce benessere, sviluppo e crescita, è sintomo di una crisi che non è di questa o quella parte, ma della politica nel suo insieme, una deriva che l’Italia non merita. Una politica che non può essere muscolare, asettica, visionaria, manageriale, rinunciataria allo stesso tempo. Ed è invece quello al quale assistiamo. E la crisi è all’interno stesso di quelli che una volta erano i partiti o i movimenti, manifestando in questo la gravità della situazione. Che si tratti di realtà eredi di altre stagioni, di partiti personali, di movimenti senza capo né coda, poco importa. La crisi è patologica e sembra non risparmiare nessuno.
Se nel Pd, ad esempio si cerca di ritrovare lo spirito di un tempo senza riuscire ad essere in accordo su quale spirito e su quale tempo mentre intorno si perdono pezzi, in Forza Italia si continua a macinare l’autodistruzione che nessuno sembra in grado di arrestare perché nessuno è in condizioni di opporsi al fondatore. Il movimento cinquestelle assiste alla sua più grave crisi da quando si è avvicinato alle leve del potere senza saper risolvere l’enigma di cosa voglia essere: un insieme di spinte e controspinte dove destra e sinistra non esistono o non si distinguono più ma convivono alimentando irrazionalità senza riuscire a costruire una sintesi identitaria.
Quelli che sembrano rappresentare di più il paese e appaiono gli unici in crescita come Lega e Fratelli d’Italia, scontano allo stesso tempo al loro interno differenze anche marcate di vedute ed esprimono anche posizioni antitetiche in termini di democrazia e di cooperazione in Europa. Gli italiani li votano certo, ma cosa votano in realtà? Esattamente quello che sono o per disperazione continuano la ricerca di qualcosa che sappia immaginare risposte coerenti e serie allo stato drammatico delle cose? Con l’aggravante che dare risposte semplici a problemi complessi non è mai una buona scelta. In questo i grillini sono maestri al contrario e sembrano aver contagiato quanti si trovano ad aver a che fare con loro.
Insomma, ancora non è chiaro per molti che cosa fare da grandi per così dire.
Nessuno vuole dialogare seriamente, confrontarsi costruttivamente con l’altro sino alle conseguenze più serie, quelle cioè in cui si cambia realmente qualcosa. Ed è proprio il timore di questo cambiamento reale che sta rallentando il paese nel suo insieme aggravando ogni giorno che passa lo stato generale. Se non si fanno passi avanti, lo stare fermi equivale ad una incessante marcia all’indietro, ad una perdita di ruolo internazionale, ad un impoverimento sino alla perdita totale di interi comparti produttivi, ad una crisi lavorativa che non si risolve con pannicelli caldi, ad una povertà che aumenta e colpisce senza distinzioni tutte le fasce sociali. In sostanza alla perdita del senso stesso di quello che l’Italia è e può essere. E se manca questa visione il paese non va da nessuna parte. Non esiste una soluzione a buon mercato e neppure una soluzione in sé, ma appare necessario che rimboccandosi le maniche tutti partecipino al primo passo: recuperare il senso delle cose, indicare le priorità strutturali e perseguirle senza perdersi in mille rivoli, in mille particolarità. E tutto questo mentre il paese comunque cammina e si confronta con il mondo. Un cammino che sarebbe più semplice se solo si avesse la capacità di essere coerenti, determinati, affidabili nel tempo. Un altro elemento con il quale sembriamo aver perso il contatto!
di Roberto Mostarda